La felicità negli occhi di Memushaj, ricambiata da quella di Gianluca Lapadula in un abbraccio che ricorda la felicità dei bambini.
Il Pescara bello e spregiudicato visto contro il Crotone non si ripete contro il Novara. Un passo in avanti e uno indietro, oppure se preferite stop and go.
Massimo Oddo, come sempre, parla in modo chiaro dopo la sconfitta in terra piemontese: abbiamo meritato la sconfitta giocando male e, soprattutto, preso un gol da polli, in un’interpretazione libera del suo pensiero. Al contrario di Marco Baroni, ha parlato di «quadratura», che continua ad esprimersi così come si esprimono le sue squadre in campo, ovvero in modo pessimo.
Dunque dopo la bella vittoria contro l’ex capolista Crotone, la sconfitta e la brutta prestazione contro il Novara. Non si può sempre vincere e giocare bene, ma è legittimo e giusto porci delle domande alla luce di ciò che abbiamo visto.
Errori della squadra, di Oddo o normale processo di crescita?
Rispetto alla partita precedente l’allenatore del Pescara schiera Fiamozzi, Bruno, Selasi e Cocco in sostituzione di Zampano, Mandragora, Verre e Benali. Ecco dunque la prima e, perfino, banale considerazione. Bruno e Selasi non valgono Mandragora e Verre. Zampano ammirato contro il Crotone è, forse, il migliore esterno basso della serie B e per il Cocco attuale non conviene sacrificare Benali o Caprari.
Penso che le ragioni della sconfitta siano, quasi, tutte qui. Il calcio è semplice e semplici, spesso, sono le spiegazioni per le vittorie o le sconfitte.
Riprendere il cammino interrotto
Per fortuna sabato si rigioca e il Pescara e Massimo Oddo possono cercare il pronto riscatto. Un riscatto rispetto alla prestazione opaca offerta contro il Novara. Penso che in ogni partita vada schierata sempre la migliore formazione possibile con i migliori uomini a disposizione. Sembra una banalità, ma non lo è perché gli allenatori spesso fanno scelte incomprensibili ai più. Oddo sta dimostrando di avere le idee chiare sia in termini di gestione del gruppo sia in relazione al gioco da dare alla squadra. Può, ovviamente, migliorare su altri aspetti. Questo è ciò che ci aspettiamo, senza fretta o impazienza.
Buon calcio a tutti.
Tre gol a Trapani e uno contro la Pro Vercelli, due vittorie che proiettano il Pescara nella parte alta della classifica.
Un Pescara bello e vincente che rispecchia il suo allenatore, preparato, sempre sicuro di se e con il sorriso sulle labbra. Una filosofia di vita e di gioco che ben si sposa con le esigenze di una piazza da sempre desiderosa di emergere e affermarsi.
A Pescara non basta vincere, bisogna vincere giocando un buon calcio. In casa come in trasferta e, per il momento, Massimo Oddo sta dimostrando di essere l’uomo giusto al posto giusto, nel momento giusto.
Innovazioni tattiche e gioco lineare
Ciò che più mi piace del gioco del Pescara di Massimo Oddo è la semplicità con la quale la squadra crea gioco. Una semplicità che è già un punto di arrivo. Accanto alla semplicità e linearità delle trame di gioco aggiungerei un’innovazione tattica destinata a fare proseliti: la rotazione del capacitore di gioco, il playmaker.
All’inizio della stagione sembrava più una necessità dovuta alle contingenze che una scelta, ma con il passare delle giornate è diventato un marchio di fabbrica. A turno, uno dei tre centrocampisti, si abbassa sulla linea dei difensori e diventa il riferimento per i compagni nell’impostazione del gioco. Questo avviene meno quando a giocare in quel ruolo c’è Mandragola, più di frequente quando il giovane talento genoano non è in campo. Nel calcio contemporaneo non s’inventa più nulla, l’innovazione proposta da Oddo è importante anche per questa ragione.
La società si riorganizza
Il tema dell’assetto societario è troppo importante per liquidarlo con due battute, ce ne occuperemo nelle prossime puntate quando si sarà depositata la polvere che si è alzata in questi giorni. Ciò che si può dire in queste ore è che la società è riuscita a costruire una buona squadra che può recitare un ruolo da protagonista nel campionato di serie B. Perché ciò accada c’è bisogno però che tutte le componenti funzionino al meglio e remino nella stessa direzione. Questo ci aspettiamo e questo si aspettano tutti i tifosi del Pescara.
Buon calcio a tutti.
Buona prova dei biancazzurri contro la capolista del campionato. Una vittoria netta che l’1-0 finale non spiega fino in fondo. Il Cagliari perde così l’imbattibilità stagionale in riva all’Adriatico contro una squadra che le è stata superiore dal primo all’ultimo minuto.
Massimo Oddo spiazza tutti e schiera Mandragora e Torreira contemporaneamente, a centrocampo. Il primo quasi a schermo della difesa e il secondo a pressare altissimo nella metà campo dei sardi, in un inedito 4-1-3-2 per gli amanti dei numeri.
La mossa si rivela vincente perché il Pescara conquista subito “campo” e impone il proprio gioco così come succede dall’inizio del campionato, eccezion fatta per la partita di esordio a Livorno. Ancora una volta l’unico appunto che si può fare alla squadra di Massimo Oddo è che rispetto alla mole di gioco che sviluppa, segna poco.
Ad Ascoli Piceno per continuare a crescere e a vincere.
Prosegue dunque la crescita della squadra che alla personalità dimostrata sin dalle prime uscite stagionali aggiunge una qualità di gioco sempre crescente e automatismi riproposti con più frequenza. Gli ultimi arrivati, in ordine di tempo, sono ormai parte integrante del gruppo e dopo l’esordio di Campagnaro si può dire che il processo d’inserimento sia compiuto.
Dopo aver battuto la squadra da tutti accreditata come la più forte del campionato, il Pescara fa visita all’Ascoli in terra marchigiana. Sarà un banco di prova importante per la squadra che dovrà rinunciare a Memushaj, Verre e Mandragora, tutto il centrocampo titolare, per le esigenze delle varie nazionali. La prestazione e il risultato della sfida contro i bianconeri dirà qualcosa in più sul valore del gruppo che Oddo sta plasmando a sua immagine e somiglianza e misurerà la capacità, continua, di crescita.
Buon calcio a tutti.
Ci sono campioni dello sport che restano impressi nella memoria di ognuno di noi e che ci segnano indipendentemente dalle vittorie. Le vittorie, i record, le belle prestazioni, sono importanti, sono l’essenza stessa dello sport, ma il campione è tale se ha qualcosa in più. Qualcosa che va oltre la vittoria, il record o la prestazione straordinaria. Il campione sa incendiare i cuori anche quando non vince, soprattutto quando non vince. Crea senso di appartenenza. Soprattutto il campione non invecchia mai, resta fisso, immobile, nella tua mente con la stessa, identica, faccia che non conosce età e tempo. Francesco Moser è uno di questi. Un campione che ha fatto piangere di gioia generazioni di appassionati di ciclismo e che resta, ancora oggi, uno dei campioni più amati di tutti i tempi dello sport italiano. Un campione che ha vinto molto e che è sempre rimasto umile e legato alla sua terra d’origine, ai valori con i quali è cresciuto, alla sua gente.
«Palù è rimasto il perno attorno al quale ha ruotato tutta la mia vita, benché nel corso degli anni il raggio della ruota si sia allungato fino ai confini della terra, dal Venezuela, dove ho conquistato la maglia iridata, al Giappone, dove sono stato il primo ciclista italiano a gareggiare. Non importa fin dove sono arrivato. Sono sempre tornato qui, dopo ogni vittoria come dopo ogni sconfitta. Perché nessuno può restare se stesso senza le proprie radici».
Ho osato vincere, l’autobiografia di Francesco Moser è, soprattutto nella sua prima parte, l’autobiografia di una famiglia che ha dato molto al ciclismo italiano ed è contemporaneamente il racconto di un’Italia che sapeva lottare ed emanciparsi senza snaturare la sua natura.
«Un giorno di fine giugno Aldo mi propone un giro in bicicletta. Ho compiuto diciotto anni da una settimana e sento ancora quello strano nodo alla gola. Per una volta tanto provo a spingere, se non altro per ricacciare indietro il groppo, quella sensazione di essere nei pressi di un valico sconosciuto e di non sapere cosa ti aspetta al di là, se sole o pioggia, neve o vento. Nel frastuono dei pensieri non sento mio fratello Aldo che mi urla di aspettarlo. È rimasto indietro sulla salita di Palù.
Appena rientro a casa annuncio che correrò. Il più sorpreso sono io».
In casa erano in undici, esclusi mamma e papà. Aldo, Enzo e Diego, tre dei suoi fratelli sono stati ciclisti professionisti. Inizia a gareggiare tardi, dopo aver compiuto i diciotto anni, perché dopo la morte del padre c’era bisogno che qualcuno si occupasse del lavoro nei campi. Un inizio per niente facile, soprattutto perché Francesco Moser è uno che non abbassa la testa di fronte a nessuno. È abituato a lottare e a battersi per le proprie idee.
«Aprire nuove strade sembra il mio destino fin dal principio. Come quando mi rifiuto di partecipare al Giro. Mai nessuno italiano di classifica si è sognato di disertare un Giro d’Italia per manifestare il proprio dissenso agli organizzatori. Mai nessuno si è spinto così avanti. Io, si. […] Quando la Filotex ufficializza la rinuncia al Giro scoppia la bomba. Gli organizzatori non possono accettarlo, mettono in campo addirittura un paio di ministri per fare pressioni. La linea Roma-Prato e Milano-Prato è rovente. Ma io sono irremovibile. “Non siamo schiavi. Abbiamo il diritto di dire di no».
Vincente fin dalle prime gare, si capisce subito che il più giovane dei Moser ha la stoffa del campione. Difficile da gestire, ma è uno che “morde” la strada. Subito dopo il gran rifiuto al Giro d’Italia e non prima di aver vinto alcune gare in Francia, si presenta a Pescara per il campionato italiano su strada.
«Pochi giorni prima del Tour, mi presento alla partenza del Campionato italiano forte delle belle vittorie in terra transalpina. Il titolo si assegna a Pescara in occasione del Trofeo Matteotti. È una giornata di caldo torrido, si ha difficoltà perfino a muoversi, figurarsi a pedalare a tutta. Il percorso di 260 chilometri è molto impegnativo, di quelli che piacciono a me, e con la temperatura di oggi è quasi proibitivo […] Vinco davanti a Valerio Lualdi e Costantino Conti, conquistando la prima maglia tricolore da professionista, dopo quella da dilettante. Nell’anno in cui ho detto di no al Giro, divento campione d’Italia. L’Italia mi ama e io sento di amarla».
Una delle 273 vittorie su strada che ne fanno il più vincente corridore italiano di tutti i tempi e il terzo al mondo. Impossibile nominarle tutte, così come difficile dire qual è la più bella. Certo ci sono alcune vittorie che, forse, sono, più belle di altre.
«È una domenica d’aprile del 1978. La Pasqua è stata celebrata da tre settimane, ma oggi è giorno di morte o resurrezione. È giorno di Parigi-Roubaix […]Nevischia alla partenza. Poi si scatenano gli altri elementi: pioggia, sole e vento […] A ventidue chilometri dal traguardo scatto. Maertnens e Raas tentano di venirmi a riprendere con De Vlaminck a ruota, ma resisto […] Appena entro nel velodromo il pubblico schizza in piedi. I francesi mi hanno adottato. Mi applaudono, scandiscono il mio nome […] Sto arrivando, amici. Sto arrivando. Alzo le braccia al cielo. Ed è arcobaleno su Roubaix».
La Parigi-Roubaix vinta per tre volte e l’amore dei francesi per Francesco Moser occupano certamente uno dei tre gradini sul podio nella speciale classifica delle vittorie più belle.
«Lunedì scendo in pista alle nove. Le tribune sono piene in ogni ordine di posto […] Fa ancora freddo e c’è vento. Gli uomini della Enervit sono nervosi […] Tranne Martini, nessun altro tecnico o direttore sportivo è giunto dall’Italia […] Fucacci ed Enzo mi aiutano a salire sulla bicicletta. Mi sento un bambino nelle loro mani. Mi imbullonano al mezzo meccanico e mi spingono. Sono una cosa sola con la bicicletta. Sono la bicicletta […] La tabella di marcia più ottimistica prevedeva un risultato vicino ai 51,2 chilometri. Sto sotto di pochissimo: chiudo coprendo 51 chilometri e 151 metri […] Balliamo sul tetto del mondo».
Il 51,151 realizzato a Città del Messico, nuovo record dell’ora e che proietta il ciclismo nel futuro, non sfigurerebbe sul secondo gradino del podio.
«All’ingresso di Verona l’urlo del pubblico sale di intensità. Solo all’imbocco del tunnel dell’Arena mi rilasso. In quei pochi metri di buio vedo una grande luce dai contorni rosati. Entro nell’anfiteatro ed è un tuffo nella luce e nella gioia. Un boato assordante scuote le fondamenta del secolare edificio e del mio animo. Ho corso a quasi 51 chilometri orari di media. Ho vinto il Giro d’Italia. Ho spezzato l’incantesimo […] Dopo il record dell’ora e la Milano-Sanremo, ecco il terzo atto della mia resurrezione. Oggi il paradiso è rosa».
La vittoria al Giro d’Italia non può che occupare il gradino più alto nel Palmarès di Francesco Moser. Il Giro che si era rifiutato di correre da giovanissimo e che gli creerà non pochi problemi per la sua futura carriera. Una vittoria che farà salire tutti sul carro del vincitore per “cantare” le lodi del campione che «ha riportato nei nostri anni Ottanta i giorni di Coppi e Bartali».
L’entrata all’Arena di Verona di quel 10 giugno del 1984 me la ricordo. Doveva recuperare 1 minuto e 21 secondi sulla maglia rosa, Laurent Fignon. Li recuperò e d andò oltre. Mi ricordo le mie lacrime di quel pomeriggio. Lacrime di gioia e di vicinanza per un atleta che aveva accompagnato la mia adolescenza e l’aveva traghettata nella gioventù. Lacrime liberatorie più belle di quelle versate per la Parigi-Roubaix, più intense di quelle versate per il record dell’ora. Lacrime indimenticabili e indimenticate perché vincere a casa propria è sempre più difficile che vincere altrove. Vale per noi, comuni mortali, valeva anche per Francesco Moser, il migliore di tutti.
Ho osato vincere, Francesco Moser con Davide Mosca (Mondadori, 2015. 222 pagine. 19,00 euro)
Diciamo la verità, da bambini nessuno vuole fare l’arbitro, così come nessuno vuole fare il portiere. Poi s’inizia a giocare e ci si rende conto dei valori in campo. A quel punto chi è meno capace è disposto a giocare anche anche in porta. L’arbitro però no, proprio no. Nessuno vuole farlo. Per questa ragione il titolo del libro di Nicola Rizzoli, Che gusto c’è a fare l’arbitro, è un titolo appropriato e che cattura l’attenzione.
«Quasi tutti quelli che parlano di calcio hanno giocato a calcio almeno una volta nella vita. Quasi tutti quelli che parlano di arbitri non hanno mai arbitrato una partita nella loro vita».
E già dall’esergo si capisce che Rizzoli ha ragione e che il libro promette bene. Siamo un Paese di allenatori, ma non di arbitri.
«Un’ultima occhiata alla borsa, poi chiudo la zip ed esco dalla stanza in punta di piedi. Anche la casa è avvolta nel silenzio e io voglio uscire senza svegliare mamma e papà. Loro non sanno niente, non sanno che è la mattina del mio debutto. Meglio risparmiare loro la tensione, e poi così sono più tranquillo anch’io».
L’arbitro bolognese svela, con grande acume, l’aspetto umano a cui in pochi prestano attenzione quando si parla di arbitri. Ci ricorda che gli arbitri sono dei ragazzi, ragazzi comuni con i sogni dei ragazzi comuni.
«una lezione che imparo sul campo, in un torneo undici contro undici organizzato a fine campionato tra le sezioni arbitrali dell’Emilia Romagna […] Ad arbitrare la finale del nostro torneo regionale viene quindi mandato un giovanissimo Pierluigi Collina […] Il giorno della partita sono emozionatissimo. Dopo qualche minuto in cui la fa da padrone l’agitazione per essere lì a giocarsi una finale (la prima della mia vita, per quanto insignificante), cominciamo a fare sul serio, con un buon ritmo. Siamo a metà del primo tempo quando dribblo un difensore, entro in area e, al minimo contatto, mi lascio cadere, sperando in quell’occhio di riguardo bolognese… Ma quanto mi sbagliavo! Non solo Collina non fischia nulla, ma mi guarda dritto negli occhi e mi urla: “Rizzoli, non fare Micca il furbo con me! Becchi male…».
Che il destino di Rizzoli fosse segnato lo si capisce fin dall’inizio della sua carriera e l’incontro con Pierluigi Collina, colui che sarebbe diventato il miglior arbitro del mondo, ne è una testimonianza in questo senso.
«Piango poi rido, piangiamo e ridiamo. Sembra una macchina con due pazzi dentro. Urlo, e poi ancora le lacrime agli occhi. Penso a come dirlo ai miei. A mia madre che sicuramente mi dirà: “Sì bravo, ma adesso non mollerai mica l’architettura!” A mio padre e a Lele che non ci avrebbero mai scommesso. In effetti sembra incredibile, anche se ci ho sempre creduto […] Rientro a casa a notte fonda, sul tavolo mia madre mi ha lasciato una piccola busta. C’è scritto: “Per Nicola Rizzoli”. La apro. Una monetina e un biglietto: “Ogni promessa è un debito. Non sono mai stato così contento di pagarne uno! Complimenti. Simone Ponzali».
Il libro è un susseguirsi di emozioni. Meglio, la trasposizione su carta e a posteriori delle emozioni forti che hanno accompagnato la brillante carriera di Nicola Rizzoli. Come il momento in cui apprende di essere diventato un arbitro di serie A e quello della designazione per la prima partita nel campionato italiano di calcio più importante.
«Aprono un’altra pallina verde e Pairetto mostra il fogliettino contenuto all’interno e dice: Venezia-Perugia, Serie A. Sposto immediatamente gli occhi su Bergamo che dice: “Vediamo chi va a Venezia…”. Mentre gira il foglietto mi guarda dritto negli occhi con sorriso: “Rizzoli! Sei pronto per la Serie A?. Oddio».
Un’ascesa che non conosce limiti e che lo porta dalla serie A italiana ai vertici del calcio europeo e mondiale.
«1° ottobre 2008, a quattro giorni dal mio compleanno, arbitrerò la mia prima partita di Champions League […] Appena entrato nello spogliatoio vedo i palloni appoggiati in una sacca sotto al tavolo. Sono tanti, una dozzina, li lasciano nel mio spogliatoio fino a qualche minuto prima della partita affinché io possa verificare se sono tutti a posto. Sopra, in bella mostra, c’è la scritta “UEFA Champions League”. Istintivamente ne afferro uno con entrambe le mani e me lo porto davanti alla faccia, poi chiudo gli occhi e inspiro profondamente. Lo so che sembra un gesto da matto, ma è un’abitudine che ho fin da bambino».
Un uomo e un arbitro di successo che coglie i frutti di un duro lavoro fatto di tante partite sui campi minori e tante ore passate a ripensare ai propri errori. Nel racconto della sua carriera Rizzoli giustappone agli accadimenti storici gli accadimenti emotivi. Svela le sue emozioni e le sue aspirazioni. I suoi, piccoli, segreti. Come per esempio l’abitudine di sentire il profumo del pallone prima dell’inizio di una partita. Lo fanno tanti bambini. Lo fanno tutti i bambini che sono innamorati del gioco del calcio. Lo fa Nicola Rizzoli, innamorato del calcio e del suo ruolo.
«Dopo cena, saluto tutti e vado in camera. Preparo la borsa con grande cura, ripetendo mentalmente l’elenco delle cose da portare, poi mi stendo sul letto e lascio rilassare gli occhi e la mente. Quindi, poco prima di dormire, proprio come ho fatto un anno fa per la finale di Champions League con quello della UEFA, mi sono seduto sul letto e, con ago e filo, cucio lo stemma Fifa sulla mia divisa rossa. Amo farlo personalmente, con le mie mani, come mi ha insegnato mia nonna tanti anni fa. È l’ultimo rito, il più importante, quello che più di tutti riesce a calmarmi».
Un amore e una passione che ha saputo trasformare in lavoro, ottenendo il massimo dei risultati a cui un arbitro può aspirare: arbitrare la finale del campionato mondiale di calcio. A lui è successo ed è successo nella patria per antonomasia del calcio, il Brasile. Il punto di arrivo di una lunga carriera che lo ha visto vincere sfide importanti. Un uomo di successo che dopo ogni risultato conseguito ha avuto la capacità di resettare e cominciare di nuovo con lo stesso entusiasmo della prima volta, cercando nuovi stimoli per nuovi successi. Soprattutto un arbitro che nutre una passione vera per il gioco del calcio e che, infondo al suo cuore, ha saputo custodire con cura il bambino che è in ognuno di noi.
«Mi lascio alle spalle i festeggiamenti di chi sta salendo le scale per andare a sollevare la Coppa del Mondo e comincio a camminare. Riesco a sentirmi finalmente solo con le mie emozioni. Mi trovo al centro, in mezzo ad almeno settantamila persone che urlano o piangono. Ora posso ammirare la cornice del Maracanà. Che spettacolo […] Ecco che gusto c’è a fare l’arbitro».
Che gusto c’è a fare l’arbitro, Nicola Rizzoli. A cura di Francesco Teniti (Rizzoli, 2015. 340 pagine. 17,50 euro)
Si attendeva una prova convincente nella prima partita casalinga della stagione e così è stato. Cancellato il brutto esordio contro il Livorno, i biancazzurri si rimettono subito nella carreggiata giusta. Il Pescara di Oddo ha offerto una buona prova contro il rinnovato Perugia di Bisoli e può guardare con relativa tranquillità alla prossima gara. Positivo l’esordio in serie B di Gianluca Lapadula che è stato anche il migliore in campo dei biancazzurri, ma tutta la squadra si è espressa su buoni livelli che fanno ben sperare.
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