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Roberto Mancini, il fuoriclasse dell’Italia

«Se stessi con un vestito bianco a un matrimonio e arrivasse un pallone infangato, lo stopperei di petto senza pensarci», sono parole del più grande calciatore di tutti i tempi, passati e futuri, Diego Armando Maradona. Parole che esprimono, come meglio non si potrebbe, la passione per il gioco del calcio e il sentimento che prova chiunque ami questo sport quando vede rotolare davanti ai propri piedi un pallone.

Ed è esattamente ciò che è successo a Roberto Mancini, il commissario tecnico della nazionale italiana, nel corso dell’ultima partita degli azzurri.

La palla è nel cerchio di centrocampo tra i piedi del centrale difensivo del Galles che prova a cambiare gioco per la sua squadra con una lunga apertura alla sua sinistra per servire un compagno di squadra posizionato sulla linea di fondo in corrispondenza della panchina italiana.

Mancini segue la partita in piedi, al limite dell’area tecnica riservata agli allenatori ed è poco distante dalla linea di fondo.

Guardando la traiettoria del pallone capisce che sarà troppo lunga per il calciatore del Galles e, istintivamente, comincia ad arretrare verso la sua panchina. Arretra e guarda il pallone, poi con un gesto tanto naturale quanto elegante colpisce la palla di tacco smorzandone la corsa.

Sarà il gesto tecnico più bello di tutta la partita, un colpo da fuoriclasse.

Fuoriclasse lo è stato da calciatore, fuoriclasse si sta dimostrando anche come allenatore.

Fu acquistato per 700.000 lire dal Bologna quando aveva solo tredici anni e si trasferì da Jesi a Bologna. A 17 anni l’esordio in prima squadra e in serie A. Un predestinato che ha riscritto la storia sportiva della Sampdoria portandola a vincere uno storico scudetto e sfiorando la vittoria in Coppa dei Campioni, sogno svanito nella notte del 20 maggio 1992 a Wembley contro il Barcellona.

Dopo 15 anni nella Sampdoria, tre anni alla Lazio ricchi di vittorie e soddisfazioni.

Uno scudetto, la Coppa delle Coppe, una Supercoppa UEFA, due Coppe Italia e una Supercoppa italiana.

Avrebbe potuto giocare nella Juventus, nell’Inter o nel Milan, nelle squadre che solitamente vincono in Italia, ma scelse di restare alla Sampdoria e di provare a vincere a Genova. E ci riuscì.

A 35 anni smette con il calcio giocato e siede in panchina come secondo di Sven-Göran Eriksson alla Lazio. Poi allenerà Fiorentina, Inter (due volte), Manchester City, Galatasaray, Zenit San Pietroburgo e oggi la nazionale italiana.

Anche da allenatore le vittorie sono tante.

Una Coppa Italia con la Fiorentina e una con la Lazio, tre scudetti, due Coppe Italia e una Supercoppa italiana con l’Inter in Italia. Un campionato inglese, una Coppa d’Inghilterra e una Community Shield con il Manchester City. E infine una Coppa di Turchia con il Galatasaray.

Alla guida della nazionale italiana con 30 partite consecutive senza sconfitte, ha eguagliato il record di Vittorio Pozzo.

Un fuoriclasse anche in panchina.

Non ha mai avuto la grande stampa sportiva dalla sua parte, né da calciatore, tantomeno da allenatore. Anche oggi continua ad essere così perché dopo la serie incredibile di risultati positivi che sta conseguendo la nazionale italiana, non si leggono lodi all’allenatore. Si tende a sminuire il valore di queste vittorie attribuendole allo scarso valore degli avversari.

Sbagliarono a non esaltarlo da calciatore, sbagliano a non esaltarlo da allenatore della nazionale italiana.

Dopo il disastro sportivo di Gian Piero Ventura, sembrava un’impresa impossibile risollevare le sorti della nazionale italiana. E invece Roberto Mancini da Jesi ci è riuscito.

La sua nazionale gioca un bellissimo calcio e, soprattutto, vince.

Non sappiamo come proseguirà il cammino degli azzurri in questi campionati europei, sappiamo però che fino ad oggi ha vinto tre partite su tre e ha divertito i tifosi.

È un grande allenatore e vincerà anche con la maglia azzurra. Basta dargli tempo e fiducia totale come fece Paolo Mantovani alla Sampdoria. Riscrisse, insieme ai suoi compagni di squadra, la storia calcistica di quella squadra; oggi è pronto per arricchire la bacheca della squadra di tutti gli italiani.

Zeman e Foggia: non è solo calcio

Il maestro di Praga non deve dimostrare niente a nessuno, tantomeno a Foggia e ai foggiani.

Quest’anno è diventato cittadino onorario della città di Umberto Giordano, un riconoscimento giusto e meritato per un allenatore che ha portato i colori rossoneri al punto più alto della loro storia calcistica.

Tra pochi giorni inizierà una nuova storia sportiva con i satanelli del Foggia e i tifosi rossoneri, dopo anni di tribolazioni e sofferenze, sono autorizzati, di nuovo, a sognare.

È bastata una foto che lo ritraeva con i nuovi proprietari della squadra di calcio del capoluogo dauno perché la notizia diventasse virale. Ne hanno scritto tutti, ma proprio tutti, i quotidiani cartacei. Ne hanno dato notizia tutti, ma proprio tutti, i giornali on line. Ne hanno parlato tutti, ma proprio tutti, i telegiornali e le trasmissioni sportive nazionali e locali.

Per questa semplice ragione Zeman e Foggia non è solo calcio.

La città vive uno dei momenti più bui della sua storia. Dopo l’arresto del sindaco è arrivato in città il Commissario prefettizio. I processi diranno qualcosa in più sulla compromissione del ceto politico locale. La malavita organizzata, Società Foggiana, ha radici solide in città. Il degrado è ovunque ed è, plasticamente, visibile a tutti sia che si arrivi in città da sud sia che lo si faccia da nord.

La comunità foggiana è come stordita dagli eventi e fa fatica ad organizzare una risposta democratica e civile. Ci sono piccoli movimenti in atto, tentativi di rompere il muro dell’afasia che cinge d’assedio la città dei giusti che in questi anni sono stati umiliati e resi non operativi.

Si vive un’attesa perenne, come se si stesse attendendo un segnale, nuova linfa per ripartire.

Può il calcio, un allenatore di calcio, rappresentare questa nuova linfa? Essere stimolo e slancio per un’intera comunità?

Io penso di si e vi spiego le mie ragioni.

La ragione, perché non si tratta di ragioni al plurale, ma al singolare, è una sola: l’esempio.20Il calcio come tutte le manifestazioni autenticamente popolari ha una grande capacità di condizionare la vita di una comunità, nel bene e nel male. Al sud, e per sud intendo il sud del mondo, lo è ancora di più, perché spesso è l’unica forma di emancipazione concessa. Gli atleti, i cantanti, gli attori, gli uomini e le donne di spettacolo in genere, sono da sempre dei modelli, da seguire, imitare.

Allo sportivo, al cantante, all’attore, non servono parole per creare dipendenza, basta l’esempio. Basta una canzone, un film, una vittoria sportiva.

Nel caso di Zeman, icona della correttezza e della sportività in un mondo sempre più compromesso, la sua funzione maieutica può essere la linfa di cui ha bisogna la comunità foggiana in questo momento.

«La mia arte di maieutico in tutto è simile a quello delle levatrici, ma ne differisce in questo, che essa aiuta a far partorire uomini e non donne, e provvede alle anime generanti e non ai corpi…».

È Platone che fa dire queste parole a Socrate in un passo molto noto del Teeteto.

Allo stesso modo, Zeman il muto, senza proferire parola può, con la testimonianza della sua vita e con tutto ciò che si appresta a vivere all’età di 74 anni, innescare un circolo virtuoso.

Una vita spesa ad allenare inculcando nei suoi calciatori, ma anche nel pubblico che lo ha sempre adorato, principi di correttezza e rispetto dell’avversario. Che si può anche essere ultimi e che non c’è nessuna vergona ad essere ultimi se si è agito al meglio delle proprie possibilità.

Un duro lavoro di preparazione rende le sue squadre imbattibili, certo, sul piano della corsa, spesso anche su quello del gioco. Un lavoro lungo, lento, in profondità. Una sorta di disintossicazione per ripartite con più forza nelle gambe, ma soprattutto nella testa e nel cuore,

Se a 74 anni è pronto a ricominciare da una panchina di serie C, con i valori di sempre e con lo stesso entusiasmo, vuol dire che la sua vera forza, la sua “invincibilità” risiede proprio in quei valori, in quei principi.

Se ce l’ha fatta lui, perché non ce la possiamo fare anche noi?

Sarà un lavoro lungo e duro. In profondità. Servirà estirpare il male dalla radice e non sarà indolore. Servirà coraggio, abnegazione e forza di volontà. Un duro lavoro che tocca a noi, ora e adesso, cominciare.

È tornato il tempo di giocare all’attacco e non più solo in difesa.

È tornato il tempo di camminare a testa alta e tornare a dire: io sono foggiano.

Da sabato prossimo parleremo di calcio giocato, di verticalizzazioni. Di catene di destra e di sinistra. Di attaccare la profondità. Di gradoni, si dei benedetti gradoni.

Ma oggi e da oggi pensiamo a cambiare in meglio lo stato delle cose, se lo facciamo tutti insieme si può.

Euro 2020, l’Italia e il tempo del bel calcio

Il livello tecnico e agonistico di questo campionato europeo di calcio è alto.

Francia, Belgio, Portogallo e Inghilterra, sembrano essere di un livello superiore a tutte le altre, ma ogni squadra ha mostrato di avere campioni in grado di risolvere, anche da soli, ogni partita.

Un discorso a parte merita l’Italia di Roberto Mancini.

Il percorso compiuto dagli azzurri fino ad oggi è straordinario. Dieci vittorie su dieci nella fase di qualificazione all’Europeo e due su due, entrambe per 3-0, in questo inizio di torneo. La squadra è imbattuta da 29 partite, dal 10 ottobre 2018 e non subisce gol da dieci partite, dal 14 ottobre 2020.

Eppure, in molti continuano ad esprimere perplessità, a sostenere che sia una squadra senza stelle di prima grandezza, che le manchi il campione assoluto.

Innanzitutto, la prima stella della squadra è Roberto Mancini, un allenatore sottovalutato in relazione a ciò che ha vinto fino ad oggi.

In Italia tre campionati e quattro volte la Coppa Italia, record che detiene a pari merito con Sven-Göran Eriksson e Massimiliano Allegri, due volte la Supercoppa italiana. In Inghilterra, una volta la Premier League e poi una FA Cup e una Community Shield. Infine, in Turchia una Coppa nazionale.

Se invece analizziamo la rosa della squadra italiana, mi chiedo e vi chiedo: Donnarumma, Lorenzo Insigne e Jorginho sono inferiori ai campioni delle altre squadre?

E ancora Marco Verratti, Ciro Immobile, Nicolò Barella, valgono meno di chi gioca nei loro ruoli nelle altre nazionali?

E ancora Domenico Berardi e Manuel Locatelli è facile trovarli in altre nazionali?

La partita contro la Svizzera ha messo in mostra proprio questi due gioielli che solo chi non mastica calcio quotidianamente non conosceva.

Berardi è nato nel 1994, compirà 27 anni il 1° agosto. Ha esordito in serie A quando aveva 19 anni e fino ad oggi ha disputato 275 partite segnando 97 reti. Non è una scoperta, è una certezza.

Manuel Locatelli è nato nel 1998 ed ha 23 anni. Ha disputato 144 partite in serie A, realizzando 8 reti. Anche in questo caso non è una scoperta, ma una certezza.

Entrambi hanno disputato le ultime stagione al Sassuolo sotto la guida di Roberto De Zerbi, 42 anni e 254 panchine fino ad oggi. 22 in serie D, 77 in Lega Pro e 114 in serie A. Anche in questo caso non una scoperta, ma uno dei migliori allenatori italiani.

Il primo gol realizzato dall’Italia contro la Svizzera è un concentrato di questa storia e racconta, in parte, questi numeri.

Locatelli riceve la palla nella metà campo dell’Italia, poco oltre il cerchio di centrocampo e, d’istinto, con un lancio di 40 metri, al volo e senza far toccare la palla a terra, serve Berardi posizionato con i piedi quasi sulla linea del fallo laterale. Berardi controlla e porta a spasso un avversario che non riesce a contrastarlo e si avvia verso la linea di fondo. Locatelli dopo il passaggio si lancia verso l’area di rigore avversaria con una falcata che ricorda il giovane Marco Tardelli. Berardi, arrivato sul fondo, alza leggermente la testa e vede il suo compagno libero al centro dell’area piccola. Passaggio rasoterra, irrompe Locatelli ed è gol. Italia 1, Svizzera 0.

Un modo di ragionare e di pensare il calcio non casuale.

Certo non si può insegnare ad un calciatore come fare un lancio di 40 metri al volo per servire un compagno, per quello occorre avere del talento naturale. Quello che si può insegnare e che De Zerbi prima e Mancini poi hanno insegnato a questi due gioielli di calciatori, è pensare il calcio come opportunità per cercare sempre la via del gol. Si possono insegnare i movimenti.

Locatelli sapeva che Berardi era posizionato in quel posto. Lo sapeva perché succede nel Sassuolo, e succede, anche, nella nazionale italiana. Il posto di Berardi è quello e lui era lì. Dopo il lancio è scattato in avanti per chiudere l’azione, sapeva che Berardi avrebbe cercato il fondo campo e rimandato la palla indietro, perché succede nel Sassuolo e succede nella nazionale italiana.

Così è stato. Niente di casuale, un modo di ragionare e di pensare il calcio.

Siamo ancora convinti che la nazionale italiana non abbia stelle in squadra?

E allora Roberto Mancini, Domenico Berardi e Manuel Locatelli, cosa sono?

Non si costruisce bel calcio senza campioni e, soprattutto, non si vincono tante partite senza calciatori eccelsi. Anche per questa ragione è sbagliato affermare che la squadra italiana non ha campioni.

Roberto Mancini ha scelto e costruito una squadra con calciatori tecnici. Una squadra che cerca il gol attraverso il bel gioco. Un calcio armonico, europeo, che sfrutta tutta l’ampiezza del campo, ma che non disdegna attaccare la profondità per linee verticali. Un calcio che si costruisce con un possesso palla mai fine a se stesso, ma che cerca, in ogni zona del campo in cui si sviluppa, la strada più breve per arrivare al gol. Per arrivare all’essenza stessa del gioco del calcio.

È bello vedere come le catene che si sviluppano per linee esterne seguano sempre un filo logico. Quando, in fase di possesso palla, Zappacosta avanza sul lato sinistro, Lorenzo Insigne si preoccupa di coprire la porzione di campo che resta sguarnita e viceversa.

È bello vedere le incursioni di Barella e Locatelli che accompagnano sempre l’azione quando si sviluppa per linee verticali.

È bello vedere Ciro Immobile attaccare lo spazio e dettare il tempo del lancio a Jorginho o a Lorenzo Insigne.

È bello vedere, infine, lo spirito di squadra che l’allenatore e il suo gruppo di lavoro hanno saputo creare. È bello vederli sorridere, abbracciarsi. Gioire insieme. È bello vedere e riconoscere la spensieratezza della gioventù.

Il viaggio è iniziato e, come abbiamo imparato da Ulisse in poi, ciò che conta non è la meta ma il viaggiare stesso. E il viaggio della nazionale italiana di Roberto Mancini, appena iniziato, è già un gran bel viaggiare.

Euro2020, l’Italia per vincere ha bisogno dell’attacco

Il calcio italiano prima dell’avvento di Arrigo Sacchi è sempre stato identificato con un modulo, spesso, vincente: catenaccio e contropiede.

Certo anche prima dell’arrivo del mago di Fusignano c’erano stati allenatori che avevano introdotto nuovi concetti di gioco e con quelli avevano anche vinto.

Primo fra tutti Fulvio Bernardini che vinse lo scudetto con la Fiorentina e il Bologna sconfiggendo, in quello che rimane l’unico spareggio disputato per aggiudicarsi il campionato italiano, l’Inter euromondiale di Helenio Herrera.

Corrado Viciani e il suo «gioco corto» della Ternana del 1970 che possiamo definire, oggi a distanza di cinquant’anni, antesignano del Tiki-Taka di Pep Guardiola.

La zona totale di Luis Vinicio con il Napoli dei primi anni Settanta e quella più compassata ma vincente di Nils Liedholm della Roma tricolore del 1982.

Il Torino scudettato di Gigi Radice del 1976 che aveva in Claudio Sala, Ciccio Graziani e Paolo Pulici il più bel trio di attacco di quegli anni.

Poi irrompe sulla scena calcistica italiana e mondiale Arrigo Sacchi da Fusignano che rompe definitivamente gli schemi e traghetta il calcio italiano, tutto, verso nuovi lidi.

Dominare sempre la partita, puntando su una difesa fortissima, Tassotti, Costacurta, Franco Baresi e Paolo Maldini, ma accentuando la valenza offensiva della squadra. Il Milan di Sacchi fu la prima squadra italiana capace di imporre il proprio gioco anche in Europa e contro grandi squadre come solo l’Olanda di Rinus Michels aveva saputo fare prima.

E veniamo ad oggi, all’Europeo che inizia domani 11 giugno con la partita Italia-Turchia.

La nazionale italiana di Roberto Mancini è una buona squadra con calciatori di talento tutti utilizzati nella posizione migliore e non poteva essere altrimenti conoscendo il passato calcistico di Mancio.

Una squadra che ha stabilito molti record positivi facendo di Mancini, indipendentemente dall’esito della prossima competizione, uno dei migliori allenatori della nazionale.

La forza di questa squadra è la capacità di cercare il gol attraverso il gioco senza mai snaturarsi, ma soprattutto la forza risiede nel gruppo che l’allenatore ha saputo creare. Chi entra sa quello che deve fare e, ad oggi, non sembra ci siano gelosie tra i calciatori. Valga per tutti il rapporto di stima e amicizia tra Ciro Immobile e Andrea Belotti.

L’Europeo lo vincerà la squadra che utilizzerà al meglio la sua capacità offensiva. La squadra che metterà i suoi attaccanti nelle condizioni migliori per poter vincere le partite e da questo punto di vista Roberto Mancini, da grande attaccante qual è stato, ha sempre creduto ciecamente nei suoi uomini gol.

Primo fra tutti Lorenzo, il primo violino, Insigne. Il capitano del Napoli è il fulcro di questa squadra, l’uomo attorno al quale ruota tutto. Segna, regala assist, è capace di rientrare con grande continuità in fase di non possesso. Un calciatore completo che ha pochi eguali anche in Europa.

Se successo sarà, ovvero se l’Italia disputerà un grande campionato europeo, molto dipenderà dalle sue prestazioni così come da quelle di Ciro Immobile, il bomber della Lazio del neo allenatore Maurizio Sarri.

Insigne, Immobile e Marco Verratti, «I bambini di Zeman», il primo voluto fortemente già a Foggia dal duo Zeman-Pavone, nel 2012 sbancarono il campionato di serie B sono con un calcio che Arrigo Sacchi definì in questo modo, «Il Pescara di Zeman ha stravinto il campionato si serie B grazie a un calcio sontuoso, moderno, armonioso […] si ricorderà per molto tempo dello spettacolo gratificante che questa squadra ha saputo concedere a tutti gli amanti di un calcio futurista».

In quel campionato la squadra guidata da Insigne, Immobile e Verratti si classificò al primo posto davanti al Torino e alla Sampdoria conquistando 83 punti. Vinse 26 partite (12 in trasferta) segnando 90 reti. Questi i riconoscimenti conferiti alla squadra adriatica dalla Lega di serie B per quella stagione: Pescara migliore squadra del campionato, Zdeněk Zeman miglior allenatore, Lorenzo Insigne miglior attaccante e Ciro Immobile capocannoniere del torneo.

Servirà una squadra capace di segnare molto e di giocare nella metà campo degli avversari. Servirà una squadra in grado di fare un gol in più degli avversari per fare bene e vincere.

Le premesse ci sono tutte, adesso tocca al campo.

Per sempre Pablito

Quando chiudo gli occhi e ho voglia di pensare ad una cosa bella che mi rende felice, felice come lo sono solo i bambini, vedo quasi sempre la stessa immagine. Odo, e sento (sorridere) il suono di una voce, ormai familiare, che in modo euforico ma garbato, misurato e oserei scrivere colto, dice «Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo…» e poi la figura esile di Paolo Rossi che esulta dopo un gol. Alza le braccia al cielo, chiude gli occhi, ed urla. Anche quell’urlo è euforico ma garbato, misurato, colto.

È la gioia dopo i tre gol al Brasile.

Era il 5 luglio del 1982 e lo stadio era il Sarriá di Barcellona, il sole caldo e tagliente sul rettangolo di gioco, «a las cinco de la tarde».

La partita era cominciata da cinque minuti e la palla è tra i piedi di Bruno Conti che, superato il centrocampo con finte e controfinte, cambia gioco e serve dall’altra parte del campo Cabrini. Il bell’Antonio con un stop a seguire alza la testa, vede Paolo Rossi, e con il sinistro gli serve un pallone a rientrare al limite dell’area piccola. Pablito ruba il tempo ai difensori brasiliani e colpisce di testa sul lato opposto a quello del portiere. Uno a zero per l’Italia.

Dopo venti minuti, siamo dunque al venticinquesimo del primo tempo, la palla è tra i piedi dei difensori del Brasile in fase di disimpegno che gigioneggiano e giocano per linee orizzontali. In uno di questi passaggi, tra tre difensori verde oro, s’inserisce Paolo Rossi che fa sua la palla e s’invola verso la porta difesa da Valdir Peres. È la rete del due a uno per l’Italia.

Quando mancano quindici minuti alla fine della partita il risultato è sul due a due, risultato che qualifica al turno successivo il Brasile. Siamo al minuto settantacinque e sugli sviluppi di un calcio d’angolo battuto da Bruno Conti, ancora lui, la palla giunge a Tardelli che l’indirizza versa la porta. Non è un tiro pulito, tantomeno irresistibile. Almeno non lo è fino a quando piomba sul pallone Pablito che realizza la rete del definitivo tre a due per l’Italia.

Tre gol diversi che sintetizzano e rappresentano le qualità del calciatore Paolo Rossi. Senso della posizione, velocità di esecuzione, qualità della giocata e, quello che i giornalisti sportivi definiscono, fiuto del gol.

Si può racchiudere una carriera in un solo fotogramma, con una sola partita e con una sola maglia?

Nel caso di Pablito sì e ce lo dice lui stesso nella sua autobiografia, «Mi piacerebbe si ricordassero di me con un solo fotogramma: maglia azzurra addosso, braccia aperte al cielo».

Ma torniamo in Spagna, in quella calda estate del 1982. Quando Abraham Klein, l’arbitro della partita, fischia la fine dell’incontro sapevamo che avremmo vinto quei mondiali di calcio. Certo c’erano ancora due partite da giocare, ma aver battuto l’Argentina e, soprattutto il Brasile, era la prova che eravamo i più forti del mondo.

Quell’Italia è stata la più bella di tutte e non ce ne potrà mai essere una migliore. Una squadra che seppe diventare un gruppo invincibile guidata da un uomo indimenticabile, Enzo Bearzot.

E poi Pablito, la nostra punta di diamante come anche il tabellone del Sarrià indicava a tutto il mondo: «Hombre del partido es Paolo Rossi».

Quella tripletta al Brasile rappresenta il punto più alto della sua carriera che nessun altro calciatore al mondo raggiungerà mai più.

Così «gioanbrerafucarlo», Gianni Brera il più bravo tra i giornalisti sportivi italiani, terminava il suo articolo all’indomani della vittoria mundial, «E grazie a voi, benamati brocchetti del mio tifo, benamati fratelli miei in mutande. Avevo pur detto che Paolo Rossi in trionfo è tutti noi. II terzo titolo mondiale dell’Italia non si discute come non si discutono i miracoli veri. Adios, intanto tia Espana, adios».

Faccio mie queste parole perché Pablito, pur avendo vinto molto a titolo personale e godendo dunque di gloria propria, rappresenta l’affermazione di un singolo all’interno di un gruppo. La vittoria di un singolo che valorizza tutto il gruppo.

Di lui ricorderemo certo i titoli di capocannoniere del campionato italiano, i tre gol al Brasile, il Pallone d’oro, ma soprattutto ricorderemo il suo essere la punta di diamante dell’Italia più bella e forte di tutti i tempi. Quell’Italia che non dimenticheremo mai e la cui formazione abbiamo imparato a memoria e faremmo bene a far imparare a memoria ai nostri figli e ai figli dei nostri figli.

Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati, Scirea, Bruno Conti, Tardelli, Paolo Rossi, Antognoni, Graziani.

Allenatore, il «vecio» così come lo ribattezzò Giovanni Arpino, Enzo Bearzot.

 

El Pibe de Oro

«Una giornalista chiese alla teologa tedesca Dorothee Sölle: “Come spiegherebbe a un bambino che cosa è la felicità?” “Non glielo spiegherei”, rispose, “gli darei un pallone per farlo giocare», lo scrive Edoardo Galeano in uno dei libri più belli dedicati al calcio.

In queste ore un effluvio di parole ha inondato la rete, le televisioni, i giornali di tutto il mondo. E però mai come questa volta si ha la sensazione che tutte queste parole non solo non siano inutili e ripetitive, ma siano perfino necessarie. Necessarie per comprendere quanta felicità abbia regalato a tanti, quanta felicità abbia regalato al popolo. Quanta ne continuerà a regalare.

Non si può spiegare in altro modo questo sentimento popolare che attraversa tutto il mondo. Alto e basso. Colto e ignorante. Bello e brutto. Educato e maleducato. Legale e illegale. Consapevole e inconsapevole.

In un mondo senza più dei e senza Dio, Maradona è l’ultimo eroe mitologico che parla un linguaggio universale. Una lingua che tutti sono in grado di comprendere.

«Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro» scrisse Pier Paolo Pasolini. Non aveva visto giocare Maradona, ma in quel mondo che procedeva a passi spediti verso una globalizzazione omologante, il più grande intellettuale italiano del Novecento ci spiegò che il calcio con i suoi protagonisti era, appunto, una rappresentazione sacra.

Maradona è il calcio e dunque Maradona è rito nel fondo.

Il 19 aprile 1989 la sua squadra, il Napoli, gioca a Monaco di Baviera e conquista la finale di Coppa Uefa, la prima per la squadra partenopea. Questo basterebbe per passare direttamente dalla cronaca sportiva alla storia di una città. E invece ciò che ancora oggi tutti ricordano e rivedono con la stessa gioia negli occhi e nel cuore e il riscaldamento prepartita del Pibe de Oro. Non c’è niente di preparato o di studiato a tavolino. Parte la musica, Life is Life, e il bambino che è in lui si risveglia. Comincia a palleggiare, a danzare, in mezzo al campo a ritmo di musica con il pallone che sembra essere incollato sui piedi, sulle spalle, sulla testa, sui tacchi. Ovunque.

Quattro anni prima, il 3 novembre 1985, si gioca Napoli-Juventus. Piove, il campo è bagnato, lo stadio è pieno in ogni ordine di posto ed è un’enorme distesa di ombrelli. Mancano diciotto minuti alla fine della partita, si è sullo 0-0. L’arbitro concede una punizione di seconda a favore del Napoli. La palla è dentro l’area di rigore della Juventus, la barriera è vicinissima alla palla meno di sei metri, certamente non i nove metri e 15 come richiesto da regolamento. Eraldo Pecci che è vicino a Maradona gli sussurra «non puoi tirare da qui, è troppo vicino». «Segno lo stesso», risponde Diego. L’arbitro fischia, tutto è sospeso, anche la pioggia per un attimo si ferma. Il piede sinistro di Maradona s’incunea tra l’erba e il pallone. Sembra ondeggiare, come ad accarezzare la sfera di cuoio. Quando parte il tiro il piede non tocca terra, resta per un attimo sospeso in aria come a guardare, ad indirizzare la palla verso la rete. È un attimo, ma sembra un tempo interminabile. La palla finisce all’incrocio dei pali, non si vede più l’enorme distesa di ombrelli, ma mani al cielo. Le persone sono felici, si abbracciano, si bagnano, piangono e ridono.

Il 22 giugno del 1986 allo Stadio Azteca di Città del Messico fa caldo. Siamo al minuto cinquantaquattro e Maradona da cinque minuti è diventato La Mano de Dios. La partita è Argentina-Inghilterra, valevole per l’accesso alla semifinale della Coppa del Mondo. Maradona viene servito nella propria metà campo da Héctor Enrique e con la palla incollata al piede salta, come fossero birilli, in ordine, Hoddle, Reid, Sansom, Butcher e Fenwick. Manca solo Shilton, il portiere. Fa fuori anche lui e segna la rete del 2-0. La FIFA, il massimo organismo del calcio mondiale, ha definito e premiato questo come il gol del secolo.

Correva invece l’anno 1970, era il Pelusa di Villa Fiorito e giocava con Les Cebollitas dell’Argentinos Juniors, quando lo intervistarono per la prima volta perché si parlava molto bene di questo bambino che con il pallone tra i piedi sapeva fare tutto: «Mis sueños son dos, el primero es jugar un Mundial y el segundo es salir campeón».

Sedici anni dopo quell’auspicio si è avverato, lo ha giocato il Campionato del Mondo e lo ha vinto.

Le sue squadre sono state tre, non me ne vogliano le altre, il Boca Juniors, il Napoli e, soprattutto, la nazionale del suo Paese, l’Argentina. Ma, isso, è stato di tutti i tifosi di calcio che esistono in questo mondo.

È il più grande di tutti, per distacco, e non morirà mai. Da oggi però, per tutti quelli che amano il calcio nella sua essenza più intima e pura, qualcosa è cambiato. Per sempre.

Bayern Monaco: vince l’organizzazione di gioco, non i singoli

La finale di Champions League, o Coppa dei Campioni se preferite, ha confermato che per vincere in Europa, ovvero al massimo livello del calcio professionistico, c’è bisogno di un’organizzazione di gioco solida. Servono certo i buoni calciatori, ma il come si sta in campo e come si fa girare la palla è, sempre, più importante di ogni singolo calciatore.

Nella finale disputata a Lisbona il PSG schierava alcuni tra i migliori calciatori in circolazione, Mbappé e Neymar su tutti e per tutti, ma pur creando alcune ottime occasioni per passare in vantaggio, la sensazione, per tutta la partita, è stata di un Bayern Monaco superiore in ogni zona del campo.

E arriviamo al dunque: qual è la componente più importante in una squadra di calcio?

Per quello che mi riguarda, l’allenatore.

Organizzazione di gioco e gestione della partita non significa che ci sono dei moduli o degli atteggiamenti in campo migliori di altri. Per essere più precisi, si vince con l’organizzazione e il controllo della partita, sia se in panchina ci sia Guardiola, Klopp oppure Mourinho.

Non è una questione di moduli, ma di approccio alla vita e, di conseguenza, anche a come condurre un gruppo alla vittoria.

In una squadra di calcio, più dei singoli è importante il gruppo, più delle teorie astratte il come si sta in campo e con quale obiettivo. Ecco per esempio, l’obiettivo è uno degli elementi più importanti.

L’ultima squadra italiana a vincere la Champions è stata l’Inter di Mourinho, una squadra che aveva un’identità di gioco e che sapeva sempre cosa fare in campo e come farlo. Nell’anno del triplete la partita che più ci racconta dello spirito di quella squadra è una sconfitta, quella che lo stesso Mourinho ha definito la sconfitta più bella della sua vita calcistica.

Barcellona 1, Inter 0. È la gara di ritorno della semifinale di Champions, all’andata i nerazzurri hanno vinto a Milano per 3-1.

L’allenatore portoghese viene accolto molto male dai tifosi del Barcellona, fischiato e insultato per tutta la durata della partita. Ero in tribuna e posso testimoniare che ciò che accaduto davvero ed è accaduto per tutta la durata della partita.

Quasi centomila spettatori sono accorsi sperando di poter assistere all’ennesimo trionfo dei ragazzi allenati da Pep Guardiola. Al minuto ventotto 28 del primo tempo viene espulso Thiago Motta e l’Inter resta in dieci.

La partita finirà 1-0 per gli spagnoli, ma non si è mai avuta la sensazione, durante tutta la partita, che l’Inter potesse non qualificarsi per la finale. Quella squadra sapeva cosa fare anche quando incontrava una squadra come il Barcellona che poteva metterla in difficoltà.

Gran parte del merito per quelle vittorie dell’Inter è da ascrivere al suo allenatore José Mourinho così come gran parte del merito della vittoria del Bayern Monaco è di Hans-Dieter Flick, l’allenatore.

Per vincere una competizione calcistica europea occorrono idee e avere il controllo della gara. Non servono solo i soldi o i grandi calciatori, occorre innanzitutto un buon allenatore.

Poco Pescara, tanta Sampdoria

Non giunge inaspettata per nessuno la sconfitta contro la Sampdoria di Marco Giampaolo. Troppa differenza tecnica tra le due squadre e, al momento attuale, anche troppa differenza tattica. E poi, dopo la tecnica e la tattica c’è la condizione fisica che non sembra essere ottimale. Almeno non lo è per i ritmi di gioco che vorrebbe il nuovo allenatore del Pescara. Dunque niente di nuovo sotto il cielo.

Leonardo Mancuso, primo colpo targato Zeman
Nel frattempo arrivano i primi rinforzi per il prossimo campionato. Leonardo Mancuso è un esterno alto, capace di fare bene sia la fase di attacco sia quella di difesa. Dotato di buona corsa è, potenzialmente, un calciatore che può andare ogni anno in doppia cifra. Un calciatore che bene si adatta al gioco che ha in mente Zeman. Arriva a parametro zero. Si è dunque già intrapresa la strada del futuro, acquistare calciatori provenienti da serie inferiori pagandoli poco o niente per valorizzarli: ciò che riesce meglio al tandem Zeman-Pavone.

Tanti calciatori sotto osservazione
Se è vero che il campionato non è affatto terminato e la “Remuntada” del Barcellona insegna che si può sperare fino a quando la matematica non ti condanna, non si può essere impreparati nel caso gli eventi dovessero essere solo negativi. Per questa ragione i calciatori sotto osservazione sono tanti. Non è il caso di fare nomi, ma certo si può capire quali siano i ruoli che, certamente, andranno rinforzati. La difesa in primo luogo e poi il metronomo del centrocampo. Per l’attacco, reparto che Zeman predilige sopra ogni cosa, c’è già il primo tassello, Mancuso, il secondo potrebbe essere lo stesso Cerri se la Juventus dovesse decidere di lasciarlo con il tecnico di Praga per aumentarne il valore. Per il resto non resta che aspettare. Per goderci ancora un grande spettacolo e provare a battere altri record.

Buon calcio a tutti

«Il maestro è nell’anima e dentro all’anima per sempre resterà…»

Il maestro è tornato sulla panchina del Pescara e, come d’incanto, i biancazzurri hanno riannodato trame che si erano interrotte nel maggio di cinque anni fa, l’anno dei record. Cinque a zero al Genoa e Zeman scrive il suo nome, ancora una volta, nell’albo d’oro dei biancazzurri: mai il Pescara aveva vinto con un punteggio così largo in serie A. Sugli spalti dell’Adriatico torna il sorriso così come tornano gli applausi a fine partita.

Vince la semplicità e un’idea felice della vita
È stata sufficiente una vittoria per rendere tutto di nuovo normale. Ovvero ricordarsi che il calcio, soprattutto per i tifosi, resta un gioco e che tutti giochiamo per divertirci. Si sono certamente divertiti i tifosi che sono tornati in massa a seguire gli allenamenti guidati dal tecnico di Praga. Il Poggio degli Ulivi è di nuovo aperto a tutti e, nella prima settimana di allenamenti guidati da Zeman, Cangelosi e Ferola, ha fatto registrare il tutto esaurito ogni giorno. Finalmente di respira, di nuovo, un clima di festa intorno alla Pescara calcio.

Maestro o sciamano?
Come ha fatto Zeman a cambiare il Pescara in tre giorni e invertire la rotta di una squadra incapace di vincere?
Il cambiamento è il frutto della combinazione di tre fattori: carisma, scelta della migliore formazione possibile, tema di gioco chiaro.
Certamente Zeman è una figura carismatica, lo si evince anche dal clamore mediatico che ha suscitato il suo ritorno in panchina, e questo incide sempre sulla psiche di chi ci entra in contatto. I calciatori sicuramente hanno tratto beneficio dal cambio di allenatore.
Ha scelto la migliore formazione possibile facendo giocare ognuno nel proprio ruolo e ha reso più ordinata la corsa di molti.
Non ha preteso d’insegnare il suo calcio in due giorni, ma ha trasferito ai calciatori pochi e semplici concetti di gioco, concentrandosi solo sulle situazioni di gioco di possesso palla. Ovvero sulla fase di attacco. Due gol su cinque sono il frutto e il risultato di questa applicazione.
Niente magia dunque, ma solo lavoro e idee chiare.

Buon calcio a tutti

Il ritorno di Zeman

Nella settimana più difficile per il Pescara, sia da un punto di vista sportivo sia da un punto di vista emotivo, e quando tutti pensavano che per il presidente Daniele Sebastiani fosse giunto il momento di passare la mano, ecco il colpo di teatro: il ritorno di Zeman.
Tutto è successo in poche ore. Poche ore tra l’annuncio della trattativa e la firma sul contratto. Zeman sarà l’allenatore del Pescara per due anni.
Pescara di nuovo sulle prime pagine dei quotidiani, sportivi e non, e questa volta non per eventi negativi. È l’effetto Zeman che precede anche l’arrivo dell’allenatore in città.

Porte aperte a tutti
Si riprende dunque il progetto interrotto cinque anni fa e tutto sembra tornare, come d’incanto, a quei giorni felici e indimenticabili. La prima decisione è quella di riaprire le porte del Poggio degli Ulivi ai tifosi. Da oggi niente più sedute a porte chiuse, ma porte aperte a tutti, anche a chi viene per rubare qualche idea. Zeman è fatto così: prendere o lasciare. Questa mattina è arrivato al campo di allenamento molto presto accompagnato da Roberto Ferola, il preparatore atletico, e Peppino Pavone, il direttore sportivo. Vincenzo Cangelosi, l’allenatore in seconda, è arrivato prima di tutti. Tutto è pronto, la giostra zemaniana può ripartire.

Grazie a Massimo Oddo e auguri per la sua carriera
Nel giorno di Zeman, non mi dimentico di Massimo Oddo. Il tecnico campione del mondo è stato bravo. Ha riportato il Pescara in serie A e quest’anno è incappato in un’annata no, può succedere. Il suo bilancio alla guida del Pescara, nonostante il brutto campionato di quest’anno, resta positivo. È una persona positiva e capisce di calcio, avrà il tempo per gioire ancora. Gli auguro tutto il bene possibile e una carriera brillante e vincente. È stato un onore conoscerlo. Grazie Massimo e buona fortuna.

Buon calcio a tutti.

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