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Maradona, Emir Kusturica

Maradona by Kusturica è un film ispirato. Il regista di Underground capisce che non si può costruire una sceneggiatura per raccontare il Pibe de oro perché nessuna finzione sarebbe capace di catturare le mille sfaccettature del fuoriclasse argentino. Per questo motivo il film si trasforma in una lunga intervista sulla vita di Diego Armando Maradona, un viaggio anche privato che in alcuni passaggi diviene intimo. E come Virgilio con Dante, Emir accompagna Diego per mano nell’attraversare i gironi del suo inferno. Inferno che diviene per un attimo la sua tomba quando tutto attorno diventa nero e risalire sembra impossibile.
In questo lungo viaggio c’è, ovviamente, anche la dimensione ludica che trova la sua sublimazione nello stadio della Stella Rossa di Belgrado. Sul quel campo di calcio si appalesa il bambino che è in ognuno di noi quando Emir e Diego, dopo aver calciato alcune punizioni, sudati, si abbracciano e parlano di calcio. È uno dei momenti più belli di tutto il film. Leggi tutto

Contro il tiqui taca, Michele Dalai

Contro il tiqui taca. Come ho imparato a detestare il Barcellona, è una lunga dichiarazione d’amore per il calcio, perché solo chi ama davvero, “senza se e senza ma” mutuando il termine dal gergo ignorante della pubblicistica politica attuale, lotta contro i mulini a vento come Don Chisciotte della Mancia. Non essere in sintonia con il sentire comune, che vuole il Barcellona come la squadra migliore del mondo, e scriverlo nero su bianco non è da tutti. Dalai utilizza centoventi pagine per spiegare Urbi et Orbi perché il gioco del Barcellona, seppur vincente e in alcuni momenti anche bello da vedere, non è il calcio che piace a lui. E più scrive, più si rende conto che il suo punto di vista non è isolato, ma al contrario incontra molti estimatori. Come se in tanti aspettassero qualcuno che rendesse esplicito e pubblico questo pensiero.
«Il calcio è più bello del possesso palla» è la sentenza finale e inappellabile di Dalai che rende evidente, fin dalle prime pagine del libro, il suo curriculum. Leggi tutto

Il più bel gioco del mondo, Gianni Brera

Il più bel gioco del mondo di Gianni Brera, il libro che abbiamo presentato nell’undicesima puntata di Calcio Totale, riconcilia con il calcio e con la letteratura.
Scritti scelti della grande penna del giornalismo italiano, non solo sportivo, dal 1949 al 1982. Quattrocentosessantanove pagine che si leggono tutte d’un fiato, pennellate d’autore che rendono giustizia di uno sport, il calcio, spesso maltrattato, inconsapevolmente, anche da chi lo racconta.
Dai primi articoli fino alla narrazione del mondiale di calcio di Spagna 1982, scritto per la Repubblica, che restituiscono, ancora oggi, un clima e sensazioni mai più provate per partite di calcio. E poi le parole spese per festeggiare il trentesimo compleanno di Gianni Rivera e su altri gradni e inimitabili campioni del calcio mondiale.
Un libro che il vero appassionato di calcio non può non avere nella sua, personale, libreria.

Il più bel gioco del mondo, Gianni Brera (Bur Rizzoli, 2007. 469 pagine. 12.20 euro)

Gigi Riva, ultimo hombre vertical

Gigi Riva ha compiuto settant’anni e a Calcio Totale abbiamo festeggiato il suo compleanno con la complicità del bel libro scritto da Luca Pisapia, Gigi Riva. Ultimo hombre vertical.
Alcuni di noi, della razza umana intendo, non hanno età ma restano per sempre giovani, forti e belli e questo è il caso di Gigiriva tutto attaccato o, se preferite di Rombo di Tuono, il nome che inventò per lui Gioannin Brera. «Il Cagliari ha subito infilato e umiliato l’Inter a San Siro: Oltre 70.000 spettatori: se li è meritati Riva, che qui soprannomino Rombo di Tuono». [Gianni Brera, 19 Ottobre 1970, stadio San Siro di Milano].
In tanti hanno, giustamente, scritto per festeggiare ed omaggiare il più grande attaccante italiano di tutti i tempi, ne siamo contenti e pensiamo che sia stato giusto farlo. Se volete deliziarvi leggete cosa scrive Luca Pisapia…

«È una sera di fine maggio dell’anno 1963. A Cagliari l’atmosfera è sterile e tersa, l’anticiclone subtropicale africano, accompagnato dalle calde correnti del Sahara, asciuga l’aria. All’aereoporto internazionale di Elmas, pochi chilometri dal centro cittadino del capoluogo sardo, sbarca Luigi Riva da Leggiuno. È un ragazzo alto e magro, quasi allampanato; timido, con lo sguardo smarrito e un po’ spaventato. È un giovane calciatore, di ruolo attaccante, che deve ancora compiere diciannove anni. È appena stato acquistato dal Legnano, squadra dell’omonima cittadina situata in prossimità delle prealpi varesine e tagliata in due dal fiume Olona. Nei suoi occhi lo stupore, in quelli dell’isola, l’indifferenza; l’epifania di Rombo di Tuono è ancora lontana».

«L’aereoporto di Elmas-Cagliari è deserto, desolato e trasuda tristezza, sommerso com’è nell’oscurità. Le luci al neon illuminano l’assenza e accrescono la solitudine. La mancanza di umidità gli strozza il respiro. L’argentino Longo, suo nuovo compagno di squadra che va a prenderlo all’aereoporto, prova a consolarlo raccontantogli le bellezze di una città e di un’isola che per adesso sono invisibile perché è notte. Ma Riva non capisce, comincia a pensare di avere fatto la scelta sbagliata. E quando in una buia notte di fine maggio dell’anno 1963, appena a rrivato a cagliari, in un’anonima e disinteressata camera d’albergo del vecchio Hotel Jolly osserva le luci lontane di sarroch che scompaiono all’orizzonte, un solo pensiero gli ronza in testa: “Ma dove cazzo sono finito? Sembra l’Africa…».

«Dopo la partita con la Juventus, Gigi Riva è nuovamente protagonista: segnando il gol decisivo su rigore nell’1-0 con il Verona e con il gol del vamtaggio nel 2-0 sul Palermo. Il 27 aprile 1970, alla ventottesima giornata, al Cagliari servono due punti in casa contro il Bari per essere matematicamente campione d’Italia con due giornate d’anticipo.
Al trentanovesimo del primo tempo c’è una punizione per il Cagliari dalla trequarti: la palla vola verso l’area di rigore, plana con una traettoria strana, tende ad abbassarsi. Rombo di Tuono è lì, fermo sulla linea dell’area piccola ad aspettare il pallone, leggermente spostato sulla sinistra.
Lo stadio Amsicora trattiene il fiato. La palla scende lentamente: è ancora troppo alta perché sia colpita di sinistro, troppo tesa per tentare l’acrobazia, troppo bassa per essere colpita di testa. Rombo di Tuono osserva la traettoria del pallone e non si preoccupa. Sa che il tempo e lo spazio sono conceti relativi che l’essere umano utilizza per orientarsi nel caos dell’universo ma che non sono leggi della natura. Lui, che ha ormai oltrepassato la condizione umana, non conosce leggi inalterabili; il mutamento e la trasformazione sono l’acqua e l’argilla con cui il demiurgo plasma la realtà. E allora si getta in avanti, si avvita su se stesso, si rimpicciolisce fino a che la palla non gli passa vicino e poi si allunga, d’improvviso, oltre i limiti fisici in cui il suo corpo dovrebbe costringerlo, fino a colpire il pallone di testa e infilarlo in rete. Gol! Lo stadio Amsicora espode e si dissolve. Il vecchio eroe cartaginese adottato dai sardi, che aveva guidato la rivolta antiromana e l’aveva perduta, lascia spazio al nuovo eroe lombardo adottato dai sardi che sta guidando la rivolta contro l’Impero e la sta vincendo. In chiusura arriva anche il gol di Gori; 2-0. Il Cagliari è campione d’Italia».

«La Juventus, dopo aver provato a prenderlo ogni maledetto calciomercato, nell’estate del 1973 arriva a offrire al Cagliari due miliardi per il cartellino di Gigi Riva; o in alternativa un miliardo e ben sette giocatori: Bettega, Cuccureddu, Gentile, Musiello, Roveta, Butti e Ferrara. A latere dei miliardi, pressione al limite della violenza psicologica sul calciatore […] I tifosi sono pronti a disseppellire nuovamente le asce di guerra e a scendere in piazza per difendere il loro eroe dal saccheggio della razza padrona. I banditi minacciano addirittura il rapimento del calciatore per impedirgli di lasciare fisicamente l’isola. Il presidente del Cagliari Andrea Arrica però non ragiona di loro e guarda e passa; accetta il sontuoso assegno da un miliardo, più sette giocatori in contropartita per il cartellino di Gigi Riva. L’affare è fatto, rimane solo un piccolo particolare, un dettaglio insignificante, una quisquilia: convincere Rombo di tuono ad accettare il trasferimento. Ma quando il calciomercato si conclude Gigi Riva è ancora a Cagliari, rimane in Sardegna. La decisione è esclusivamente sua».

«Rifiutai. Con rabbia. Il Cagliari mi aveva ceduto senza interpellarmi. I club erano d’accordo e io ero stato ceduto come una bestia. Dissi no, col diavolo in corpo. Come si permettevano di trattarmi in quel modo, come un oggetto?».

Gigi Riva. Ultimo hombre vertical, di Luca Pisapia (Limina, 2012. 180 pagine. 16.00 euro)

Calcio. 1898-2010. Storia dello sport che ha fatto l’Italia, John Foot

La narrazione della storia del calcio italiano di John Foot, dalle origini fino ai nostri giorni, è una lettura piacevole e utile. Piacevole perché attraversa un secolo di accadimenti sportivi con una scrittura sempre in bilico tra cronaca sportiva e narrativa, e utile perché oltre a fornire molte informazioni specifiche, racconta antropologicamente anche un pezzo di storia del bel paese.
Si parte cronologicamente dal primo campionato italiano che si disputò a Torino nel maggio del 1898 in un solo giorno, ma subito dopo la navigazione continua per temi. Uno sviluppo verticale che consente di approfondire ogni tema con la libertà di focalizzare l’attenzione su ciò che davvero merita attenzione.
John Foot è un londinese che insegna Storia Italiana contemporanea a Londra che dichiara fin dall’introduzione a questa sua enciclopedica opera che il calcio italiano ha tante cose da farsi perdonare. A cominciare dall’acquisto del suo calciatore preferito, Liam Brady. Era il 1980 e la squadra responsabile di tale sacrilegio fu la Juventus. Le colpe maggiori però sono altre, innanzitutto gli scandali del calcio scommesse e di Calciopoli.
«Nel maggio 2006, gli italiani furono sconvolti dagli avvenimenti che si trasformarono nel più grande scandalo della storia dello sport, meglio conosciuto come «Calciopoli» oppure, occasionalmente, come «Moggiopoli», dal nome del suo protagonista principale, Luciano Moggi. Alcune settimane dopo, la Nazionale azzurra vinse la sua quarta Coppa del mondo. Nessuno scrittore avrebbe osato sperare in una così straordinaria combinazione di successo e squallore, abilità e corruzione».
Un inizio per niente politically correct che avverte immediatamente il lettore su ciò che l’aspetta. Una ricognizione completa e puntuale degli avvenimenti sportivi, ma contestualmente una lettura della società italiana che in questo calcio si rispecchia e si riconosce.
Foot introduce nella sua narrazione molte variazioni sul tema e la sua scrittura non ne risente e, anzi, lascia emergere dalla moltitudine dei protagonisti che hanno scritto la storia di questo sport il meglio e il peggio.
Al meglio appartiene «Concetto Lo Bello, il “Principe”, fu l’arbitro italiano più famoso di tutti i tempi. Autoritario, discusso, coraggioso, narcisista, diresse ben 328 partite in serie A tra il 1954 e il 1974. Lo Bello era anche un’icona dal punto di vista estetico. Alto, dall’aria distinta, impeccabile nel vestire, con il colletto bianco della divisa perfettamente stirato e il baffo sempre curato. Lo Bello riuscì, nel corso degli anni, a “importunare” tutti i grandi club, il che sembra indicare che fu quanto mai imparziale nel difficile mondo del calcio italiano».
Con Nicolò Carosio inizia invece il racconto del mondo della comunicazione sportiva, passando per Tutto il calcio minuto per minuto per approdare al miglior programma che è stato e continua ad essere è Sfide.
Una sezione significativa è dedicata al tifo e al pianeta autonomo rappresentato dai tifosi organizzati. Anche qui Foot racconta in modo crudo e diretto il carico di violenza, e in alcuni casi di morte, che accompagna le malefatte di gente senza scrupolo che rende invivibile luoghi che altrove sono solo e sempre luoghi al ritrovo e al divertimento. Il racconto qui si fa duro e propone una geografia aggiornata delle cattedrali che ospitano la follia di queste manifestazioni becere.
Violenza che in alcuni casi, isolati per fortuna, appartiene anche ai calciatori. Come per la Lazio della metà degli anni Settanta.
«Il sorprendente successo della Lazio nella prima metà degli anni Settanta – culminato con il primo scudetto della storia del club nella stagione 1973-74 – arrivò grazie a una squadra di ragazzacci, fascisti dichiarati, appassionati di paracadutismo e armati di pistola. Lottavano con le squadre avversarie dentro e fuori del campo – si scontrarono con i giocatori e lo staff dell’Arsenal all’esterno di un ristorante di Roma nel 1970 e con quelli dell’Ipswich negli spogliatoi nel 1973. E frequentemente facevano a botte tra di loro […] Al centro di questo gruppo pazzo, cattivo e pericoloso c’era proprio Giorgio Chinaglia».
Insieme al “peggio” c’è il “meglio” a bilanciare una narrazione che altrimenti sarebbe, forse, troppo sbilanciata e di parte. Le vicende umane e sportive di Gigi Meroni, piuttosto che quelle di Roberto Baggio o di Cristiano Lucarelli riconciliano con il bel calcio. Così come riconcilia con la vita la vicenda umana, prim’ancora che sportiva, che ha legato e lega tuttora Gigi Riva a Cagliari e alla Sardegna.
«Riva non abbandonò mai il Cagliari, malgrado le numerose offerte ricevute da tutti i grandi club, specialmente dalla Juventus alla quale il centravanti stava per essere ceduto nel 1973: ma lui rifiutò il trasferimento. La sua fedeltà alla maglia gli procurò affetto e stima eterni da parte dei suoi adoranti tifosi. La Juve – si disse – offrì sei giocatori in cambio di Riva […] Come scrisse Gianni Brera: “Lo scudetto del Cagliari rappresentò il vero ingresso della Sardegna in Italia”. Per lo scrittore Nanni Boi, Riva realizzò il “miracolo di unificare la Sardegna”, da sempre afflitta dalle divisioni interne».
Vicende e risultati sportivi che sostituiscono e rimpiazzano la politica e svolgono una funzione maieutica. Divengono un modello e un esempio da seguire.
Non poteva non esserci, con tutta la potenza della sua scrittura, Gioannin Brera che oltre ad offrire una lettura antropologica del Paese attraverso le diverse tattiche di gioco arricchisce il vocabolario della lingua italiana di nuove parole.
«Più di ogni altra cosa, Brera è famoso per l’invenzione di un nuovo linguaggio. Le sue iperboli linguistiche toccarono tutti gli aspetti del calcio. Molte di queste espressioni erano così azzeccate, efficaci o divertenti che sono diventate parte del linguaggio italiano, e non solo del gergo calcistico. Melina – il termine che indica il passarsi la palla per perdere tempo – è una delle sue invenzioni. Brera coniò soprannomi che colpivano – “Rombo di Tuono” per Riva, “Abatino” per Rivera eccetera – e che divennero persino parte della personalità dei giocatori coinvolti. Era unico, uno che poteva e non può essere copiato. Sono stati pubblicati anche dizionari sul suo calcio-idioma. Pochissimi uomini di penna hanno aggiunto così tante parole alla lingua scritta e parlata, e nessuno prima e dopo di lui ha più scritto con tale stile, eleganza e originalità sui ciò che una volta era il gioco più bello».
Un’opera dunque che diverte, rilassa e induce alla riflessione e che pur stigmatizzando i comportamenti di molti lascia aperta la porta alla speranza.
«A volte durante la stesura del libro, mi sono sentito come Malcom McDowell in Arancia meccanica. Sono stato costretto a guardare cose che, alla fine, mi hanno nauseato. Non pensavo fosse possibile, ma mi sono quasi disamorato del calcio […] Ma tutto ciò non è bastato per farmi smettere completamente di seguire il calcio. Mi sono tenuto in disparte e di fronte a certi episodi il tutto ha acquisito un senso. Per esempio guardare Roberto Baggio segnare il suo duecentesimo gol, o Francesco Totti esplodere uno dei suoi tiri potenti, o Lilian Thuram, per la millesima volta nella sua carriera, stoppare la palla, alzare lo sguardo e passarla elegantemente a un centrocampista. Questi momenti, e molti altri, hanno fatto del calcio il gioco più bello. Non può essere definito così, soprattutto in Italia, ma non tutto è ancora perduto».

Calcio. 1898-2010. Storia dello sport che ha fatto l’Italia, John Foot (2012, BUR Rizzoli, 624 pagine. 23,00 euro)

Dura solo un attimo la gloria, Dino Zoff

L’esordio letterario letterario di Dino Zoff non poteva essere migliore di questo: un’autobiografia essenziale così come essenziale è stato l’atleta Zoff e l’uomo Dino Zoff. Non a caso il libro è attraversato da alcuni figure totemiche come quella del padre di Zoff, il signor Mario, di Gaetano Scirea e del “Vecio” Enzo Bearzot. Un libro che vale la pena leggere perchè sono sempre rare le persone serie e in grado d’insegnare qualcosa. Dino Zoff è una di queste persone. Per chi vuole è a disposizione l’intervista con il capitano della nazionale iatliana campione del mondo nel 1982 in Spagna, nella puntata numero 8 di Calcio Totale.

Dura solo un attimo la gloria, Dino Zoff (2014, Mondadori, 180 pagine. 17 euro)

Non gioco più, me ne vado, Gianni Mura

Non gioco più, me ne vado è un viaggio lungo cinquant’anni in cui incontrerete atleti che hanno fatto la storia di tanti sport. Personaggi che hanno popolato e continuano a popolare i nostri sogni e che ci avvicinano, ogni qualvolta ce ne allontaniamo, a quella dimensione ludica e fanciullesca che sola può riscattare il tempo malato e corrotto che stiamo vivendo. Personaggi e accadimenti che raccontano di gioie e dolori, di vittorie e sconfitte, di vita e di morte. Narrazioni di parte, di un giornalista che è un grande scrittore: Gianni Mura.

Una raccolta di scritti, dal 1965 a oggi e pubblicati su la Repubblica e la Gazzetta, curati da Andrea Gentile e Aurelio Pino, raggruppati in nove capitoli assemblati per affinità elettive più che per temi. Esempi di eccelsa bravura che arricchiscono le narrazioni sportive di funzioni maieutiche come, forse, solo Gianni Brera aveva saputo fare. Belle narrazioni senza tempo che si leggono per il piacere della lettura, per riconnettere fili della memoria che altrimenti rischierebbero di essere travolti e recisi definitivamente da una quotidianità, spesso, misera.
Un giornalismo che trasforma la cronaca sportiva in materiale utile alla letteratura e che riesce a far coesistere il ritmo incessante dell’avvenimento, hic et nunc, con una narrazione capace di liberarsi dai contesti da cui prende le mosse e perciò senza finalità immanenti.
Gregari, campioni, coppe e bidoni è il sottotitolo scelto per questa raccolta che contiene tanti e diversi uomini. Calcio e ciclismo sono i protagonisti assoluti delle narrazioni, ma un ruolo determinate nella composizione del progetto lo rivestono le lettere, pubbliche, che Gianni Mura indirizza ad alcuni dei protagonisti più importanti di questi cinquant’anni di storia dello sport.
«Quando sei morto, ho scoperto che avevi vinto 34 corse in tutto. Mercks ne vinceva di più in una stagione. Ma era il modo, non il numero. Per questo Villeneuve è stato più amato di Schumacher. Per questo al tuo funerale c’era Charly Gaul, malato […] Non morirai del tutto perché il ciclismo è lo sport più ricco di memoria e, per riflesso, di morti. Lo so già che da qualche parte, sulle strade del Tour, ci saranno sul gruppo due ombre taglienti, larghe, simmetriche. Le ali di Pantadattilo, ma qualche stupido dirà che sono nuvole». Una lettera struggente che tocca le corde giuste di chi ha amato e continuerà ad amare per sempre “Il pirata”. È il modo con cui Gianni Mura saluta Marco Pantani nel 2004.
Facendo un piccolo salto indietro, fermiamo le lancette del tempo al 1985 e cambiamo sport. Sono gli anni d’oro del Napoli di Corrado Ferlaino, ma soprattutto sono gli anni del “Pibe de oro”.
«Lui doveva fermare La Juve e lui l’ha fermata. La fantasia popolare non tiene conto del collettivo […] Un uomo solo al comando della nave dei sogni: la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Diego Armando Maradona, il suo sinistro non perdona. Dicono che abbia scavalcato San Gennaro, che non ha il vantaggio di esibirsi tutte le domeniche. Pallonetto è un quartiere di Napoli, non solo la specialità di Maradona. Quasi tutti i suoi gol sono allegri e beffardi come la sua faccia, che è fin troppo ovvio definire da scugnizzo […] Maradona è quello che sembra e sembra quello che è. Maradona parla per tutti…».
La penna di Mura fissa sulla carta i tratti essenziali di un uomo e nello stesso tempo di un popolo che si stavano manifestando sotto i suoi occhi. A distanza di trent’anni quelle parole mantengono intatto e inalterato il loro significato, sulla loro bellezza, invece, abbiamo già scritto.
Restando nel mondo del calcio, l’articolo che dedica a Gigi Riva nel 2004, nel giorno del suo sessantesimo compleanno, è insieme una lunga dichiarazione d’amore per l’atleta e nello stesso tempo una vicinanza a un modo di essere e di vivere. Narrazioni di parte, appunto.
«Riva non ha mai amato i giornalisti. Poteva rispettarli (è il caso di Brera) o sopportarli (era il caso mio). Ma la sua specialità era dribblarli […] A volte mollava tutti al tavolo del ristorante Corallo e usciva a correre in macchina sulla costa, a tutta velocità, da solo […] Quando lo rividi, fuori dall’Amsicora, aveva una Dino e sotto il tergicristallo c’erano poesie, bigliettini di ragazze, molto espliciti per i tempi, richieste d’incontro […] Era un calcio impastato di ironia, di rabbia, di umanità: Era un mondo adulto, si sbagliava da professionisti come nella canzone di Conte. Non tornerà più perché il castello è cresciuto e le fondamenta sono sempre bugie. Ma se uno mi chiedesse di stringere Riva (Giggirrivva) in due parole, dovrei ricorrere allo spagnolo: hombre vertical».
In forme e modi diversi è presente nel libro, Gianni Brera, il più grande giornalista sportivo italiano.
Le pagine che Mura dedica a “Gioann” si possono ascrivere direttamente al patrimonio letterario italiano.
«Dicono che la nebbia sia il vestito migliore, nella Lombardia di pianura, e questi giorni sono giorni di nebbia a San Zenone, dove Gianni Brera nacque ed è sepolto, di nebbia anche tra Maleo e Casalpusterlengo, sulla strada dove morì».
È questo l’incipit dell’articolo scritto nel 2002 in occasione del decennale della morte dell’inventore di parole che è stato Gioannin Brera. Ricordo che si scioglie in un lungo, infinito, abbraccio con le parole che chiudono il ricordo. Nostalgia di te, Gioann il titolo dell’articolo.
«Averti letto e poi conosciuto è stata una fortuna e una ricchezza, averti perso un dolore. I ricordi pubblici sono faticosi, quasi imbarazzanti, preferisco ricordarti rileggendoti o bevendoti un bicchiere di barolo (scusami, ma ultimamente mi piace più del barbaresco) o tossendo con la prima sigaretta del mattino. Per il resto, vale la promessa di Malta: continuerò a portarti in giro, ma selezionando i luoghi. L’erba di San Siro ti farebbe madonnare, il prossimo Tour promette bene».
Scrisse Manuel Vázquez Montalbán, a proposito di letteratura sportiva, «Sono gli scrittori sudamericani a trasformare il calcio in una specie di epica moderna», a loro si può aggiungere certo l’italiano Gianni Mura, il continuatore del lavoro intrapreso da Gianni Brera.

Non gioco più, me ne vado, Gianni Mura (2013, il Saggiatore, 504 pagine. 17 euro)

Beha, Pecci e Zanetti, un tris d’assi per Pagina Tre

      

Oliviero Beha, Eraldo Pecci e Javer Zanetti, sono stati gli ospiti, prestigiosi, di Pagina Tre, rispettivamente nella 3ª, 4ª e 5ª puntata di Calcio Totale.
Autori di tre libri diversi eppure molto simili. Tre libri in cui al centro della narrazione c’è la vicenda umana del protagonista, prim’ancora della vicenda sportiva. Una narrazione in cui la vicenda sportiva funge, quasi da contorno, in qualche misura completa il racconto.
Il libro di Beha, Un cuore in fuga, racconta la vicenda umana di Gino Bartali che, approfittando della fama che il ciclismo gli aveva regalato, salva da morte sicura molte uomini e donne ebrei in una Firenze martoriata dalla guerra. Un campione nella vita così come sulle strade di mezzo mondo.
Eraldo Pecci racconta la storia dello scudetto che vinse con la maglia gloriosa del Torino nella indimenticabile stagione calcistica 1975/76, Il Toro non può perdere il titolo del libro. E anche in questo caso, accanto alla narrazione sportiva ci sono protagonisti e vicende umane che superano anche quella vittoria che può, a ragion veduta, considerarsi storica.
Javer Zanetti con Giocare da uomo ha emozionato lo studio e i telespettatori con la sua passione autentica per un calcio pulito, ma soprattutto per il suo essere una bella persona. Anche in questo caso il libro ripercorre la sua straordinaria carriera ricca di trionfi sportivi, ma racconta di un Pupi, è il nome con cui affettuosamente viene chiamato Zanetti, attento alla vita di tutti i giorni e dei più bisognosi.

Un cuore in fuga, Oliviero Beha_(2014, Piemme, 266 pagine. 14,90 euro)
Il Toro non può perdere, di Eraldo Pecci (2013, Rizzoli, 288 pagine. 18 euro)
Giocare da uomo. La mia vita raccontata a Gianni Riotta, Javer Zanetti_(2013, Mondadori, 300 pagine. 17,50 euro)

Pep Guardiola e Jorge Valdano, ovvero della leadership

I primi due libri della nuova stagione di Calcio Totale sono libri che affrontano un tema che attraversa e intriga la società contemporanea: la leadership.
In tanti scrivono libri sulla leadership, sulle qualità di un leader, su come si costruisce un leader, sui punti di forza di un leader. Parallelamente si analizzano le figura di tanti leader per mettere a confronto la teoria con la pratica. Pochi sono però i leader che si misurano con questo tema. Ovvero la grande produzione su questo argomento non è quasi mai frutto di conoscenza diretta.
I due libri presentati ci aiutano a capire perché c’è qualcosa di diverso e di altro quando a scrivere è il leader in prima persona.
Il primo, Coaching Guardiola, è scritto da Miquel Angel Violan, un giornalista spagnolo che si autodefinisce come uno dei massimi conoscitori del “Guardiola pensiero”, il secondo invece, Le undici virtù del leader, è scritto da Jorge Valdano, un leader. Valdano è stato un leader in campo, quando giocava e vinceva con la maglia dell’Argentina piuttosto che con quella del Real Madrid, ed è un leader oggi che ha smesso i panni del calciatori per vestire quelli del dirigente.
Libri uguali eppure diversi dunque che scopriremo in modo più dettagliato nelle prossime settimane.

Miquel Angel Violan, Coaching Guardiola_2014, Vallardi, 234 pagine. 12,90 euro
Jorge Valdano, Le undici virtù del leader_2014, Isbn, 158 pagine. 19,00 euro

La corsa non finisce mai, Pietro Paolo Mennea

Aver letto il libro di Pietro Mennea, La corsa non finisce mai, a pochi giorni dalla sua morte è stata un’esperienza entusiasmante e insieme dolorosa. Entusiasmante perché Mennea in prima persona racconta e condivide con il lettore la sua inimitabile carriera sportiva, ricca di successi e soddisfazioni personali e collettive. Dolorosa perché la medaglia d’oro di Mosca fa riemergere i fatti e le ragioni dell’ostracismo nei suoi confronti da parte dell’establishment politico a capo del mondo dello sport italiano.
«Fuori dal sogno faceva freddo» scrive il velocista azzurro in uno dei passaggi più significativi del libro, riuscendo a racchiudere in una sola frase tutta la sua vicenda, sportiva e umana. Un’espressione onomatopeica che accompagna e racconta, meglio di qualunque altra spiegazione, la carriera agonistica di Pietro Paolo Mennea e racconta molto della sua vicenda umana.
«La mia terra è stata ed è amara, e non solo per l’atletica. Nascere a Barletta e ostinarsi a sognare ha comportato il pagamento di un prezzo altissimo: la solitudine. Mi sarebbe piaciuto continuare a vivere e a vincere nella mia città, tra la mia gente. Mi sono portato dentro un luogo della memoria che col tempo e la solitudine è diventato il luogo della mia anima.
Ho pensato spesso a Barletta negli anni passati a correre in giro per l’Italia e per il mondo.
Ancora oggi mi rendo conto che sono teso a cogliere ogni possibile occasione per rivederla, nonostante, con il passare degli anni, la gente si sia mostrata ingrata nei miei confronti».
Un atleta che ha iniziato a correre da ragazzo con un fisico che non prometteva niente di buono e in una città che non aveva neanche una pista d’atletica decente, è certo un uomo che ha grande coraggio, ma soprattutto una forza di volontà fuori dal comune. Forza di volontà che lo porta a conseguire oltre alle numerose vittorie sportive anche quattro lauree (Scienze politiche, Giurisprudenza, Diploma Isef e Scienze dell’educazione motoria, Lettere) e ad esercitare la professione di avvocato e dottore commercialista.
Il medagliere di Mennea è, fin dall’inizio della sua carriera agonistica, d’oro con la medaglia più preziosa conquistata nei 200 metri ai Giochi del Mediterraneo del 1971. Da quel giorno tantissimi trionfi. Il bronzo alle Olimpiadi di Monaco del 1972, le due medaglie d’oro ai Campionati europei di Roma del 1974, 200 metri e staffetta 4×100. Il bis sul gradino più alto del podio, questa volta in due gara individuali, avviene ai Campionati europei di Praga del 1978, 100 e 200 metri. Poi nel 1979 a Città del Messico il record del mondo con quel 19’’72 che resterà per sempre impresso nella nostra memoria e che resisterà per diciassette anni. E poi la medaglia più ambita per qualunque atleta al mondo, la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Mosca nel 1980.
«Le 48 ore della mia vita di cui vado più orgoglioso» scrive Mennea ricordando i giorni che hanno preceduto la vittoria olimpica con una narrazione che fa rivivere, attimo per attimo, tutto ciò che successe in quei giorni.
Non solo successi sportivi, ma anche grandi e gravi dissidi con gli uomini che gestiscono lo sport italiano. Come l’assurda vicenda successiva al trionfo dei Campionati europei di Praga del 1978.
«Dopo quelle dieci fatiche in sei giorni, per potermi riposare e puntare a risultati cronometrici importanti, chiesi di non partecipare alla successiva tournée in Oriente. Più che un valore agonistico, questa iniziativa perseguiva le mire elettorali di Nebiolo, ormai lanciato verso la conquista della poltrona di presidente della Federazione mondiale di atletica leggera.
Come risposta mi fu negato il permesso a gareggiare e soprattutto di potermi allenare in Italia. Decisi comunque di non partire e per tale ragione, con provvedimento federale di sospensione, mi fu impedito di proseguire la stagione agonistica e ricevetti un’ammonizione con diffida […] Questo fu il premio per le mie dieci fatiche di Praga».
Un atleta vincente che non viene additato come esempio, ma che al contrario viene lasciato sempre più solo. E dopo l’affermazione più prestigiosa della sua carriera Mennea decide di ritirarsi dall’attività agonistica. Lo fa lasciando senza parole il suo allenatore, Carlo Vittori, che non può che prendere atto della sua decisione.
«Sono 15 anni che bevo solo acqua minerale, neanche frizzante, ma solo semplice; non ce la faccio più, sento il bisogno di riposarmi». Il suo riposo durerà poco, perché il velocista di Barletta tornerà presto a gareggiare e disputerà anche la sua quinta e ultima Olimpiade a Los Angeles nel 1984.
Ha vinto tanto, tantissimo, ma non ha ricevuto in cambio gli onori e i riconoscimenti che avrebbe meritato. Ha pagato per le sue idee e per le sue prese di posizione. Ha pagato la denuncia del doping in un mondo, quello sportivo, che è corrotto e inquinato fino alle sue propaggini più periferiche.
«L’ottava corsia amplifica la solitudine» scrive Mennea, quella stessa solitudine con la quale ha convissuto come atleta e come cittadino italiano. Quella solitudine a cui lo hanno condannato i capi dello sport italiano che non lo hanno mai ritenuto degno di poter svolgere un ruolo importante e apicale per lo sport italiano. È stato un campione di levatura mondiale, riconosciuto da tutti, e lo è stato innanzitutto perché è stato un grande uomo. «Non è tanto importante il risultato sportivo, almeno non quanto il risultato umano. Ciò che conta davvero non è vincere nello sport, ma vincere nella vita».
E certo la sua vita, seppur brevissima, è stata una vita che lo ha visto spesso vincere. Pietro Paolo Mennea un uomo contro il sistema e un’atleta vero, il più grande atleta dello sport italiano, unico uomo al mondo a disputare quattro finali olimpiche sulla stessa distanza, 200 metri.
«Per ottenere tutto questo ho vissuto 5482 giorni praticamente come un frate trappista. Mi sono allenato a Natale e a Capodanno, a Pasqua, seguendo tabelle stilate con cura e magari aumentando i carichi previsti in esse, se mi accorgevo di non risentirne. Ho passato giorni e giorni da solo, a Formia, in pista la mattina, in pista il pomeriggio, un po’ di tv la sera e poi a dormire, senza una persona vicino. La mia casa era una stanza d’albergo, la mia famiglia i camerieri dell’hotel dove soggiornavo abitualmente. Quello era il mio rifugio. Ho disputato 528 gare, 419 individuali e 109 di staffetta. Ho vestito per 52 volte la maglia della nazionale».

La corsa non finisce mai, di Pietro Paolo Mennea (Limina, 2012. 214 pagine. 16.00 euro)

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