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Nereo Rocco. La leggenda del paròn continua, Gigi Garanzini

Avvertenza per il lettore. Fin dalle prime parole si capisce che Gigi Garanzini è innamorato (perso) ancora oggi del Paròn e che dunque, se vi apprestate a leggere Nereo Rocco. La leggenda del paròn continua, dovete sapere che state per leggere un libro di parte. Dalla parte di un’Italia bella che non c’è più e di un calcio, altrettanto bello, cancellato e sostituito con una sua brutta copia dai nuovi protagonisti della scena: i procuratori dei calciatori e le pay tv. In parte anche dall’avvento del tatuaggio.
Un calcio che costruì la sua popolarità e la sua fortuna su personaggi autentici che i media utilizzavano per vendere meglio i loro prodotti e non viceversa.
La figura che emerge dalle pagine di Garanzini, e dalle tante testimonianze che l’autore ha raccolto e selezionato, è quella di un gigante del calcio e di un guru della comunicazione. Perché Nereo Rocco è stato tutto ciò: una carriera sportiva che ha pochi eguali e una vicenda umana unica e inimitabile. Una narrazione collettiva che inchioda il lettore alla poltrona dalla prima all’ultima parola e che emoziona e rapisce.
«Nel mio primo viaggio sulle orme del parón che immaginavo sbiadite e che invece come oggi erano solchi, scavati indelebilmente nella memoria dei suoi».
Dove i «suoi» non sono i parenti prossimi, ma le persone che l’hanno conosciuto e frequentato.
Una carriera, prima da calciatore e poi da allenatore, che ha visto il paròn crescere ed affermarsi nella propria terra, che non è riuscito mai a lasciare del tutto anche quando i successi mondiali lo costringevano a vivere in altre lidi.
«Strano rapporto quello di Rocco con Trieste. Non riusciva a starne lontano, ma nemmeno era capace di rimanerci […] Tornava, celebrava il suo rito irrinunciabile e scappava. Neppure d’estate, in tempo di vacanze, riusciva a resistere per più di una settimana […] la vera dimensione del suo amore per Trieste era quella della rimpatriata».
Trieste prima e Padova poi decretano il suo successo come allenatore. Un secondo posto dietro al Grande Torino con la Triestina e un terzo posto seguito sempre da ottimi piazzamenti con il Padova spingono a furor di popolo il paròn verso la panchina rossonera del Milan.
Garanzini si sofferma sui successi sportivi e sulle invenzioni tecnico tattiche di Rocco, ma il libro assume dimensioni epiche, come le gesta dell’uomo di cui qui si narra la vicenda, quando emerge l’aspetto umano e la grande capacità comunicativa del triestino che portò la Milano rossonera sulla cima del mondo.
Chi parla è Lello Scagnellato il capitano del Padova delle meraviglie del Paròn che così spiega i segreti di quello squadrone, «noi passavamo le giornate a tenerci la pancia con le mani, dal gran ridere: perché Rocco questo aveva creato: il divertimento continuo, e che divertimento. Nel calcio spesso ci si annoia a stare insieme, ad aver di fronte sempre le stesse facce: noi non vedevamo l’ora di ritrovarci per scoprire cos’altro si era inventato».
Un’armonia che iniziava nello spogliatoio e finiva spesso in qualche trattoria per bere un buon bicchiere di vino. Ancora Scagnellato che, come un fiume in piena, fa rivivere il paròn.
«Si cambiava con noi, divideva con noi la tavola, il tempo libero, le emozioni, le gioie, i dolori. Anche i quattrini, le ho detto che ero io a dividere i premi e lui era il primo a ritirare la sua parte, in mezzo a noi, senza formalità né tantomeno segreti».
Sono parole che utilizzano quasi tutti i suoi calciatori, siano essi atleti della Triestina, del Padova o del Milan, così come nel caso di Giuseppe Rosato, centrale dei rossoneri euro mondiali.
«Il suo segreto, in fondo, era semplice: la ricerca non del campione a ogni costo, ma del buon giocatore. A patto che fosse uomo. Se era uomo, gli andava bene anche il giocatore normale; se non lo era, non gli interessava nemmeno il campione perché sapeva che prima o poi si sarebbe rivelato un involucro vuoto».
Un grande psicologo innanzitutto e un uomo concreto che sapeva restare al proprio posto e con i piedi ben piantati per terra. Un uomo dotato di forte carisma e un grande innovatore.
«Era un uomo di cultura asburgica, dotato quindi di un grande senso della gerarchia. Da questo punto di vista mi portava grande rispetto […] Rocco arrivò e insieme impostammo la campagna trasferimenti: mio padre, io, lui e Passalacqua. Mi ero fatto l’idea, prima del suo arrivo, che per rilanciare il Milan avrebbe fatto chissà quali richieste. Alla fine prendemmo Hamrin, Malatrasi e Cudicini. Il saldo attivo tra acquisti e cessioni fu di 500 milioni. Diciamo 8-10 milioni di euro di oggi. E con quella squadra in due anni vincemmo tutto: campionato, coppa delle Coppe, Coppa dei Campioni e Intercontinentale».
Chi parla è Franco Carraro all’epoca dei fatti giovanissimo figlio del presidente del Milan che costruirà sulle fortune calcistiche dei rossoneri gran parte delle sue future fortune manageriali.
Oltre alle qualità umane c’è spazio, ovviamente, anche per le sue grandi qualità di tecnico.
Nereo Rocco è stato uno dei più grandi innovatori del calcio italiano introducendo il ruolo del battitore libero che prima del suo avvento sulla panchina della Triestina non esisteva. Ma soprattutto e a dispetto di una critica superficiale e cialtrona Nereo Rocco è stato un allenatore che ha sempre valorizzato i calciatori di classe e gli attaccanti.
Il grande vecio del calcio italiano, Enzo Bearzot, e grande amico del paròn così analizza «Le formazioni che schierava e com’erano sistemate in campo le sue squadre […] Prendiamo il suo Milan più bello? Tre attaccanti più Rivera. Cioè Hamrin a destra, Sormani al centro e Prati a sinistra. più Rivera per l’appunto. Vogliamo provare a fare dei paragoni?».
Appunto tre attaccanti più Gianni Rivera e c’è chi parla soltanto di re del catenaccio. Certo quando allenava la Triestina o il Padova era più propenso alla fase di non possesso come si direbbe oggi, ma quando ha avuto la possibilità di poter far giocare calciatori di qualità e grandi attaccanti lo ha sempre fatto con grande disinvoltura e ha vinto tutto quello che un allenatore può sperare di vincere, in Italia, in Europa e nel mondo. Sulla stessa lunghezza d’onda di Bearzot è anche Massimo Giacomini, tecnico preparato e fine conoscitore di calcio.
«È storicamente giusto che Rocco sia ricordato innanzitutto come uomo di spogliatoio, nelle sue varie accezioni […] nel suo Padova, oltre ad almeno due attaccanti di ruolo, giocavano Pison, Celio e Tortul che erano giocatori tecnici, e Humberto Rosa che era supertecnico […] A Torino giocava con Meroni, Combin e Simoni, o Facchin, tre attaccanti di ruolo. In più c’era Moschino, centrocampista creativo, e i terzini spingevano, soprattutto Poletti».
Non è un caso che il forte sentimento di amicizia che legava il paròn a Gianni Brera fosse messo in discussione solo dalla distanza di giudizio che li separava su Gianni Rivera, «Xe Rivera la nostra Stalingrado» soleva dire il triestino al padano di San Zenone al Po.
Ed è proprio l’ex golden boy del calcio nostrano, il primo italiano a vincere il pallone d’oro, che colloca il paròn nella dimensione che più gli è propria. «Prima di lui» confida Rivera a Gigi Garanzini, «si poteva non sapere il nome dell’allenatore di una squadra. Dopo non più. Rocco per primo e poi Herrera hanno dato visibilità a una categoria che sino a quel momento non l’aveva. Questa è storia del costume, prima ancora che del calcio in senso stretto».
E per tutti coloro che anche dopo aver letto questo bel libro continueranno a sostenere che il calcio, questo calcio di cui scrive Garanzini, sia una manifestazione umana di serie B e che non merita attenzioni valga una piccola strofa di Umberto Saba che proprio alla Triestina di Nereo Rocco dedicò memorabili versi.
«Giovani siete, per la madre vivi;
vi porta il vento a sua difesa. V’ama
anche per questo il poeta, dagli altri
diversamente – ugualmente commosso».
Sono giunto alla fine del libro e già mi manca il suono del suo «Ciò, perché mi sono di Francesco Giuseppe e la parola xe una», e penso che abbia avuto ragione Garanzini ha lascar parlar in triestino il paròn perché «Non si doppia una voce che torna dalla leggenda a rifarci un po’ di compagnia».

Nereo Rocco. La leggenda del paròn continua (2012, Mondadori, 216 pagine. 14,00 euro)

Splendori e miserie del gioco del calcio, Eduardo Galeano

Eduardo Galeano è un intellettuale uruguagio, uno dei migliori autori della letteratura latinoamericana, un grande appassionato di calcio. Insieme ad altri scrittori, per lo più sudamericani, è riuscito, con i suoi scritti sullo sport più popolare al mondo, a trasformare le narrazioni calcistiche in epica moderna. E ogni suo scritto è un «Omaggio al calcio, celebrazione delle sue luci, denuncia delle sue ombre».
Ha spesso attaccato gli intellettuali di sinistra che snobbano il calcio sia come puro divertimento e diletto, sia come manifestazione umana utile alla comprensione di alcuni fenomeni di massa.
In Splendori e miserie del gioco del calcio, nella nuova edizione e veste grafica e con la bella traduzione di Pierpaolo Marchetti, riesce a trasferire al lettore il suo grande amore per il calcio e la sua passione per la giustizia e per la verità. Il suo essere vicino a chi soffre e lotta per emergere. In questo senso è al di fuori di ogni logica neoglobalizzatrice che ci vuole tutti uguali e sempre pronti a dire di sì. E in questo, pur essendo autenticamente legato alle sue radici e alla sua terra, ci mostra come superare, anche nel tifo per il calcio, ogni provincialismo.
«Sono passati gli anni, e col tempo ho finito per assumere la mia identità: non sono altro che un mendicante di buon calcio. Vado per il mondo col cappello in mano, e negli stadi supplico: “Una bella giocata, per l’amor di Dio”. E quando il buon calcio si manifesta, rendo grazie per il miracolo e non m’importa un fico secco di quale sia il club o il paese che me lo offre».
Un autentico appassionato di calcio che insegue, supplica a volte una buona giocata. In questa narrazione, che parte delle origini del calcio per arrivare fino ai mondiali del 2006, ci sono tanti singoli protagonisti, ma soprattutto Galeano si diletta a scrivere di gol. Si perché il gol è l’essenza stessa del gioco del calcio. «Il gol è l’orgasmo del calcio. Come l’orgasmo, il gol è sempre meno frequente nella vita moderna». Il gol sempre meno presente nelle partite di oggi perché tutti, dai dirigenti ai calciatori, dal pubblico agli sponsor cercano solo la vittoria. Ad ogni costo.
«Obbligati dalla legge del rendimento, che ha bisogno di vincere con ogni mezzo e genera ansia e angoscia, molti giocatori diventano delle farmacie che corrono. E lo stesso sistema che li condanna a questo, poi li condanna per questo ogni volta che la cosa viene scoperta».
Sembra di udire le parole di un altro innamorato del calcio e del gol, l’allenatore di zemanldandia, Zdeněk Zeman. Stesse parole e stessa filosofia. Il primo, Galeano, usa esclusivamente le parole per dilettare e censurare, il secondo, Zeman, le sue squadre per deliziare il pubblico e le parole per attaccare il sistema.
«E grazie a Maradona il sud oscuro era riuscito, infine, a umiliare il nord luminoso che lo disprezzava. Coppa dopo coppa, negli stadi italiani ed europei, la squadra del Napoli vinceva, e ogni gol era una profanazione dell’ordine costituito e una rivincita sulla storia […] Nel calcio frigido di fine secolo, che esige di vincere e proibisce di godere, quest’uomo è uno dei pochi a dimostrare che la fantasia può anche essere efficace».
Nel personalissimo Pantheon di Galeano non poteva non esserci il più grande di tutti i calciatori, Diego Armando Maradona, perché “El pibe de oro” incarna alla perfezione il riscatto sociale di ogni bimbo del sud del mondo unitamente a una tecnica così pura che lo ha reso, quando era ancora un calciatore inattività, il più grande di tutti i tempi.
E sempre a proposito di Maradona, Galeano racconta un’incredibile partita che si disputò nel 1973.
«Si misuravano le formazioni dei ragazzi dell’Argentinos Junior e del River Plate a Buenos Aires. Il numero 10 dell’Argentinos ricevette il pallone dal suo portiere, scartò il centravanti del River e iniziò la sua corsa. Vari giocatori gli si fecero incontro. A uno fece passare il pallone di lato, all’altro tra le gambe, l’altro ancora lo ingannò di tacco. Poi, senza fermarsi, lasciò paralizzati i terzini e il portiere caduto a terra e camminò con il pallone ai piedi fin dentro la porta avversaria. In mezzo al campo erano rimasti sette ragazzini fritti e quattro che non riuscivano a chiudere la bocca […] Di notte dormiva abbracciato alla palla e di giorno con lei faceva prodigi. Viveva in una casa povera di un quartiere povero e voleva diventare un perito industriale».
Scritti brevi, ma capaci di entusiasmare al pari di un bel gol o di una acrobatica rovesciata che fa terminare la corsa del pallone all’incrocio dei pali della porta avversaria. Esprimono un sentimento autentico e ricco di gioia, qualcosa che si avvicina all’idea di felicità. E anche se «Il calcio professionistico fa tutto il possibile per castrare questa energia di felicità, lei sopravvive malgrado tutto». Galeano critica anche coloro che scrivono i libri di storia e non inseriscono il calcio come materia di studio per i più giovani. Secondo Galeano lo studio del gioco del calcio aiuterebbe a comprendere meglio i popoli perché «lo stile di gioco è un modo di essere che rivela il profilo proprio di ogni comunità».
E sempre a proposito di felicità ecco la chicca dell’ultimo capitolo, La fine della partita.
«Un giornalista chiese alla teologa tedesca Dorothee Sölle: “Come spiegherebbe a un bambino che cosa è la felicità?” “Non glielo spiegherei”, rispose, “gli darei un pallone per farlo giocare”».
Un libro che ogni appassionato di calcio, e insieme di libertà e di giustizia, deve avere sul proprio comodino e a portata di mano, per poterlo sfogliare e leggere ogni qualvolta il triplice fischio finale di una partita comincia a segnare il tempo che ci separa dall’inizio di una nuova e sempre entusiasmante storia d’amore con un nuovo, possibile, pibe de oro.

Splendori e miserie del gioco del calcio, Eduardo Galeano (1997, Sperling & Kupfer, 282 pagine. 16,50 euro)

Il Toro non può perdere, Eraldo Pecci

Scrive Gianni Mura nella prefazione: «questo, che sembra un libro rievocativo dello scudetto ’76, in realtà è una storia d’amore e a me piacciono le storie d’amore». Leggendo queste parole mi sono tornate in mente altre parole, lette tanti anni fa, che delimitano e restringono il concetto espresso da Mura. «Tutte le storie sono storie d’amore», scrive Robert McLiam Wilson in Eureka street. E ciò che racconta Eraldo Pecci ne il Il Toro non può perdere è davvero una bella storia, una bella storia d’amore. La narrazione di un mondo che non c’è più, «Erano altri tempi, torno a dirlo» scrive sempre Mura, travolto e cambiato da un’omologazione del pensiero che non ha eguali nell’evoluzione dei comportamenti umani. Un’umanità, rievocata anche nelle pagine scritte da Eraldo Pecci, che c’informa di un Paese migliore, sano e ricco di futuro.
La magica stagione ’75-76, il sottotiolo del libro, è la stagione della conquista dell’ultimo scudetto del Toro, uno scudetto che Pecci conquista al primo anno con la maglia granata. Una maglia passata direttamente dalla storia alla leggenda nel pomeriggio del 4 maggio 1949, il giorno del tragico incidente che causò la morte di un’intera squadra che aveva vinto cinque scudetti consecutivi.
Il giovane Eraldo si accorge fin dal primo momento che indossare la maglia granata è un privilegio e nello stesso tempo molto difficile.
«La differenza che c’è tra le città d’Italia dove ci sono due squadre e Torino è che a Torino ci sono “loro”, i gobbi. A Milano succede che in un certo periodo vada meglio il Milan e in un altro l’Inter. Succede così anche a Roma tra Lazio e Roma o a Genova tra Genoa e Sampdoria. A Torino no, a Torino ci sono “loro”, che sono padroni del giornale, padroni della tv, padroni della banca e, tramite la Fiat, padroni della città. Non c’è gara».
Eppure in quell’annata, calcisticamente fantastica e irripetibile, il Toro vinse lo scudetto conquistando 45 punti contro i 43 della Juventus. Era il Toro del “giaguaro”, dei “gemelli del gol”, del “poeta”. Questa la formazione titolare: Castellini, Santin, Salvadori, Patrizio Sala, Mozzini, Caporale, Claudio Sala, Pecci, Graziani, Zaccarelli, Pulici. Una squadra efficace e bella da vedere che rinverdì, anche se per pochi anni, i fasti del “Grande Torino”. Una squadra che giocava in velocità con un pressing alto in fase di non possesso palla che solo molti anni dopo si rivedrà, applicato sistematicamente, nel campionato italiano di calcio. Una squadra ruvida e nello stesso tempo con un alto tasso tecnico garantito da calciatori che hanno segnato la storia calcistica non solo del Toro. Paolo Pulici, Ciccio Graziani, Claudio Sala, Renato Zaccarelli, lo stesso Eraldo Pecci.
Ma un’impresa, perché quella del Toro del 1975 fu una vera impresa, non si realizza soltanto con gli undici calciatori che la domenica vince le partite sul terreno di gioco. Un’impresa come quella realizzata dal Torino nella stagione sportiva 1975/76 si costruisce se c’è un gruppo allargato di persone che lavora e vive in armonia. Questo gruppo Pecci non l’ha dimenticato, anzi è proprio a loro che dedica le pagine più belle del suo libro. Bruno Vigato (il magazziniere), la signora Franca (responsabile spogliatoio “Fila”), la famiglia Pasotti (il ristorante del circolo del Toro), Domenico Magrini (l’artigiano delle scarpe da calcio), il signor Porzio (addetto all’arbitro), Giacomo Franco detto “Nino” (accompagnatore di Radice), Bruno Colla e Giovanni Monti (massaggiatori), sono solo alcuni rappresentanti della fauna umana presente nel libro e che rese possibile, assieme ai calciatori ovviamente, quello splendido trionfo sportivo.
Pecci non dimentica niente e nessuno. C’è spazio infatti anche per la letteratura con Giovanni Arpino e la sua Me grand Turin, così come c’è, ovviamente, il giusto spazio per Luciano Orfeo Pianelli che Pecci definisce come «il miglior presidente che ho avuto in tanti di carriera […] Mi fermo ancora oggi al cimitero di Villefranche a salutare il mio Pres davanti alla tomba che divide con donna Cecilia. Sulla lapide ci sono spesso fiori freschi, a volte fiori di tifosi granata».
A questo si giustappone la narrazione degli eventi sportivi che determinarono quella storica vittoria. Le partite, i gol, gli aneddoti, i protagonisti. A completare il tutto 34 fotografie (più 2 della copertina), quasi tutte in bianco e nero, che hanno la capacità di saper riavvolgere il nastro dei ricordi e trasportati, per il tempo della lettura, ad esultare con Pulici e Graziani, con Castellini e Claudio Sala e, ovviamente, con quel ragazzo dall’accento bolognese e la maglia numero 8 sulle spalle: Eraldo Pecci.

Il Toro non può perdere, Eraldo Pecci (2013, Rizzoli, 288 pagine. 18 euro) 

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