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L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra, di Gigi Riva

«Sono quasi le 7,30 della sera a Firenze. Nessuna brezza è arrivata a dare un briciolo di refrigerio. Ai calci di rigore si consuma il destino di quella che sarà l’ultima Jugoslavia alla fase finale di una competizione mondiale». Una vicenda emblematica del rapporto perverso tra sport e politica.
Nella tragica e violentissima dissoluzione della Jugoslavia un calcio di rigore sembrò contrassegnare il destino di un popolo. Un penalty divenne nei Balcani il simbolo dell’implosione di un intero Paese, e dei conflitti che sarebbero seguiti di lì a poco. Intuendo la complessità di un evento che sembrava soltanto sportivo, Gigi Riva racconta con attenzione da storico e sensibilità da narratore un tiro fatale, sbagliato il 30 giugno del 1990 a Firenze da Faruk Hadžibegić, capitano dell’ultima nazionale del Paese unito. La partita contro l’Argentina di Maradona nei quarti di finale del Mondiale italiano portò all’eliminazione di una squadra dotata di enorme talento ma dilaniata dai rinascenti odi etnici. Leggenda popolare vuole che una eventuale vittoria nella competizione avrebbe contribuito al ritorno di un nazionalismo jugoslavista e scongiurato il crollo che si sarebbe prodotto.
Proprio per la sua popolarità il calcio è sempre servito al potere come strumento di propaganda. Basti pensare all’uso che Mussolini fece dei trionfi del 1934 e 1938, o a come i generali argentini sfruttarono il Mondiale in casa del 1978, durante la dittatura. Oppure, ai giorni nostri, a come lo Stato Islamico abbia deciso di colpire lo Stadio di Francia durante una partita per amplificare il suo messaggio di terrore. Ma si potrebbe sostenere che in nessun luogo come nella ex Jugoslavia il legame tra politica e sport sia stato così stretto e perverso. Attraverso la vita del protagonista e dei suoi compagni (molti dei quali diventati poi famosi in Italia, da Boban a Mihajlović, da Savićević a Bokšić, Jozić a Katanec), si scopre il travaglio di quella rappresentativa nazionale e del suo allenatore Ivica Osim, detto «il Professore», o «l’Orso». Nelle loro gesta si specchia la disgregazione della Jugoslavia e la spregiudicatezza dei suoi leader politici, che vollero utilizzare lo sport e i suoi eroi per costruire il consenso attorno alle idee separatiste. In questo senso il calcio è stato il prologo della guerra con altri mezzi, il rettangolo verde la prova generale di una battaglia. Non a caso si attribuisce agli scontri tra i tifosi della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa di Belgrado il primato di aver messo in scena, in uno stadio, il primo vero episodio del conflitto. Ed è nelle curve che sono stati reclutati i miliziani poi diventati tristemente famosi per la ferocia della pulizia etnica a Vukovar come a Sarajevo.
Per il loro valore emblematico le vicende narrate, risalenti a un quarto di secolo fa, sono ancora tremendamente attuali. E non è così paradossale scoprire in esergo a queste pagine le parole beffarde che Diego Armando Maradona rivolse all’autore: «Occupati di politica internazionale, il calcio è una cosa troppo seria».

Gigi Riva è caporedattore centrale del settimanale «l’Espresso». Da inviato speciale de «Il Giorno» ha seguito tutte le guerre balcaniche degli anni Novanta.

L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra, di Gigi Riva (Sellerio, 2016. 192 pagine. 15,00 euro)

I migliori del 2016

La mia rivoluzione. L’autobiografia di Johan Cruyff_(Bompiani, 2016. 240 pagine. 17,00 euro)
Lungo tutta la sua carriera Johan Cruyff è stato sinonimo di calcio totale, profeta di una nuova religione calcistica che unisce ordine e creatività, forza fisica e cervello, tradizione e rivoluzione. Capelli lunghi modello beat generation, fumatore incallito, idee libere e temperamento ribelle, il Pelé bianco ha riscritto le regole dentro e fuori dal campo. Prima all’Ajax e poi al Barcellona, con il suo “Cruyff-turn” ha lasciato di sasso schiere di difensori e con la sua filosofia ha influenzato generazioni di allenatori. Dalla periferia di Amsterdam all’olimpo del calcio, Cruyff ha consegnato alla sua autobiografia il racconto appassionante e definitivo di una vita straordinaria.

L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra, di Gigi Riva_(Sellerio, 2016. 192 pagine. 15,00 euro)
«Sono quasi le 7,30 della sera a Firenze. Nessuna brezza è arrivata a dare un briciolo di refrigerio. Ai calci di rigore si consuma il destino di quella che sarà l’ultima Jugoslavia alla fase finale di una competizione mondiale». Una vicenda emblematica del rapporto perverso tra sport e politica.
Nella tragica e violentissima dissoluzione della Jugoslavia un calcio di rigore sembrò contrassegnare il destino di un popolo. Un penalty divenne nei Balcani il simbolo dell’implosione di un intero Paese, e dei conflitti che sarebbero seguiti di lì a poco. Intuendo la complessità di un evento che sembrava soltanto sportivo, Gigi Riva racconta con attenzione da storico e sensibilità da narratore un tiro fatale, sbagliato il 30 giugno del 1990 a Firenze da Faruk Hadžibegić, capitano dell’ultima nazionale del Paese unito. La partita contro l’Argentina di Maradona nei quarti di finale del Mondiale italiano portò all’eliminazione di una squadra dotata di enorme talento ma dilaniata dai rinascenti odi etnici. Leggenda popolare vuole che una eventuale vittoria nella competizione avrebbe contribuito al ritorno di un nazionalismo jugoslavista e scongiurato il crollo che si sarebbe prodotto.
Proprio per la sua popolarità il calcio è sempre servito al potere come strumento di propaganda. Basti pensare all’uso che Mussolini fece dei trionfi del 1934 e 1938, o a come i generali argentini sfruttarono il Mondiale in casa del 1978, durante la dittatura. Oppure, ai giorni nostri, a come lo Stato Islamico abbia deciso di colpire lo Stadio di Francia durante una partita per amplificare il suo messaggio di terrore. Ma si potrebbe sostenere che in nessun luogo come nella ex Jugoslavia il legame tra politica e sport sia stato così stretto e perverso. Attraverso la vita del protagonista e dei suoi compagni (molti dei quali diventati poi famosi in Italia, da Boban a Mihajlović, da Savićević a Bokšić, da Jozić a Katanec), si scopre il travaglio di quella rappresentativa nazionale e del suo allenatore Ivica Osim, detto «il Professore», o «l’Orso». Nelle loro gesta si specchia la disgregazione della Jugoslavia e la spregiudicatezza dei suoi leader politici, che vollero utilizzare lo sport e i suoi eroi per costruire il consenso attorno alle idee separatiste. In questo senso il calcio è stato il prologo della guerra con altri mezzi, il rettangolo verde la prova generale di una battaglia. Non a caso si attribuisce agli scontri tra i tifosi della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa di Belgrado il primato di aver messo in scena, in uno stadio, il primo vero episodio del conflitto. Ed è nelle curve che sono stati reclutati i miliziani poi diventati tristemente famosi per la ferocia della pulizia etnica a Vukovar come a Sarajevo.
Per il loro valore emblematico le vicende narrate, risalenti a un quarto di secolo fa, sono ancora tremendamente attuali. E non è così paradossale scoprire in esergo a queste pagine le parole beffarde che Diego Armando Maradona rivolse all’autore: «Occupati di politica internazionale, il calcio è una cosa troppo seria».

Merckx, il Figlio del tuono, di Claudio Gregori_(66THA2ND, 2016. 576 pagine. 23,00 euro)
Il 20 marzo 1966 un giovane belga si schiera al via della Milano-Sanremo. Ha vent’anni e non si è mai misurato con un tracciato così lungo. Al traguardo vincerà la prima classica del suo palmarès. Quel giorno, come con Coppi all’indomani della guerra, si apre per il ciclismo una nuova èra. Fin da quella prima apparizione, Merckx ha mostrato di possedere, oltre al talento, il gusto dell’avventura e della prodezza. Al pari dei grandi del passato. Ma più di chiunque altro ha saputo interpretare la gara come «sfida totale», battaglia all’arma bianca. Ha imposto uno stile, «la corsa di testa», riportando il ciclismo alla sua vocazione originaria. Lo chiameranno l’Orco, il Coccodrillo, Attila, il Cannibale: temuto e invidiato, è stato «il più grande agonista» di uno sport arduo, a volte crudele. Per questo la sua storia – scritta sul pavé, nel fango, nella tormenta, segnata da cadute rovinose, nobilitata dai duelli con Gimondi, Ocaña, Fuente – merita un posto speciale nella «sconfinata biblioteca della bicicletta». Dall’esordio alla corte di Van Looy fino all’eclissi improvvisa, Claudio Gregori ricostruisce le imprese di Merckx ritraendolo come un cavaliere impavido, a caccia di tesori favolosi, in una nuova chanson de geste. E ci restituisce intatti l’epica e l’incanto delle gare, la giostra dei distacchi, gli inseguimenti spericolati, le crisi di fame, il «frinire della ruote» tra le vette innevate o le pietraie roventi dove un uomo solo si batte fiero contro un plotone di avversari – o forse contro sé stesso, inseguendo il fantasma di Fausto.

Non gioco più, me ne vado, Gianni Mura

Non gioco più, me ne vado è un viaggio lungo cinquant’anni in cui incontrerete atleti che hanno fatto la storia di tanti sport. Personaggi che hanno popolato e continuano a popolare i nostri sogni e che ci avvicinano, ogni qualvolta ce ne allontaniamo, a quella dimensione ludica e fanciullesca che sola può riscattare il tempo malato e corrotto che stiamo vivendo. Personaggi e accadimenti che raccontano di gioie e dolori, di vittorie e sconfitte, di vita e di morte. Narrazioni di parte, di un giornalista che è un grande scrittore: Gianni Mura.

Una raccolta di scritti, dal 1965 a oggi e pubblicati su la Repubblica e la Gazzetta, curati da Andrea Gentile e Aurelio Pino, raggruppati in nove capitoli assemblati per affinità elettive più che per temi. Esempi di eccelsa bravura che arricchiscono le narrazioni sportive di funzioni maieutiche come, forse, solo Gianni Brera aveva saputo fare. Belle narrazioni senza tempo che si leggono per il piacere della lettura, per riconnettere fili della memoria che altrimenti rischierebbero di essere travolti e recisi definitivamente da una quotidianità, spesso, misera.
Un giornalismo che trasforma la cronaca sportiva in materiale utile alla letteratura e che riesce a far coesistere il ritmo incessante dell’avvenimento, hic et nunc, con una narrazione capace di liberarsi dai contesti da cui prende le mosse e perciò senza finalità immanenti.
Gregari, campioni, coppe e bidoni è il sottotitolo scelto per questa raccolta che contiene tanti e diversi uomini. Calcio e ciclismo sono i protagonisti assoluti delle narrazioni, ma un ruolo determinate nella composizione del progetto lo rivestono le lettere, pubbliche, che Gianni Mura indirizza ad alcuni dei protagonisti più importanti di questi cinquant’anni di storia dello sport.
«Quando sei morto, ho scoperto che avevi vinto 34 corse in tutto. Mercks ne vinceva di più in una stagione. Ma era il modo, non il numero. Per questo Villeneuve è stato più amato di Schumacher. Per questo al tuo funerale c’era Charly Gaul, malato […] Non morirai del tutto perché il ciclismo è lo sport più ricco di memoria e, per riflesso, di morti. Lo so già che da qualche parte, sulle strade del Tour, ci saranno sul gruppo due ombre taglienti, larghe, simmetriche. Le ali di Pantadattilo, ma qualche stupido dirà che sono nuvole». Una lettera struggente che tocca le corde giuste di chi ha amato e continuerà ad amare per sempre “Il pirata”. È il modo con cui Gianni Mura saluta Marco Pantani nel 2004.
Facendo un piccolo salto indietro, fermiamo le lancette del tempo al 1985 e cambiamo sport. Sono gli anni d’oro del Napoli di Corrado Ferlaino, ma soprattutto sono gli anni del “Pibe de oro”.
«Lui doveva fermare La Juve e lui l’ha fermata. La fantasia popolare non tiene conto del collettivo […] Un uomo solo al comando della nave dei sogni: la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Diego Armando Maradona, il suo sinistro non perdona. Dicono che abbia scavalcato San Gennaro, che non ha il vantaggio di esibirsi tutte le domeniche. Pallonetto è un quartiere di Napoli, non solo la specialità di Maradona. Quasi tutti i suoi gol sono allegri e beffardi come la sua faccia, che è fin troppo ovvio definire da scugnizzo […] Maradona è quello che sembra e sembra quello che è. Maradona parla per tutti…».
La penna di Mura fissa sulla carta i tratti essenziali di un uomo e nello stesso tempo di un popolo che si stavano manifestando sotto i suoi occhi. A distanza di trent’anni quelle parole mantengono intatto e inalterato il loro significato, sulla loro bellezza, invece, abbiamo già scritto.
Restando nel mondo del calcio, l’articolo che dedica a Gigi Riva nel 2004, nel giorno del suo sessantesimo compleanno, è insieme una lunga dichiarazione d’amore per l’atleta e nello stesso tempo una vicinanza a un modo di essere e di vivere. Narrazioni di parte, appunto.
«Riva non ha mai amato i giornalisti. Poteva rispettarli (è il caso di Brera) o sopportarli (era il caso mio). Ma la sua specialità era dribblarli […] A volte mollava tutti al tavolo del ristorante Corallo e usciva a correre in macchina sulla costa, a tutta velocità, da solo […] Quando lo rividi, fuori dall’Amsicora, aveva una Dino e sotto il tergicristallo c’erano poesie, bigliettini di ragazze, molto espliciti per i tempi, richieste d’incontro […] Era un calcio impastato di ironia, di rabbia, di umanità: Era un mondo adulto, si sbagliava da professionisti come nella canzone di Conte. Non tornerà più perché il castello è cresciuto e le fondamenta sono sempre bugie. Ma se uno mi chiedesse di stringere Riva (Giggirrivva) in due parole, dovrei ricorrere allo spagnolo: hombre vertical».
In forme e modi diversi è presente nel libro, Gianni Brera, il più grande giornalista sportivo italiano.
Le pagine che Mura dedica a “Gioann” si possono ascrivere direttamente al patrimonio letterario italiano.
«Dicono che la nebbia sia il vestito migliore, nella Lombardia di pianura, e questi giorni sono giorni di nebbia a San Zenone, dove Gianni Brera nacque ed è sepolto, di nebbia anche tra Maleo e Casalpusterlengo, sulla strada dove morì».
È questo l’incipit dell’articolo scritto nel 2002 in occasione del decennale della morte dell’inventore di parole che è stato Gioannin Brera. Ricordo che si scioglie in un lungo, infinito, abbraccio con le parole che chiudono il ricordo. Nostalgia di te, Gioann il titolo dell’articolo.
«Averti letto e poi conosciuto è stata una fortuna e una ricchezza, averti perso un dolore. I ricordi pubblici sono faticosi, quasi imbarazzanti, preferisco ricordarti rileggendoti o bevendoti un bicchiere di barolo (scusami, ma ultimamente mi piace più del barbaresco) o tossendo con la prima sigaretta del mattino. Per il resto, vale la promessa di Malta: continuerò a portarti in giro, ma selezionando i luoghi. L’erba di San Siro ti farebbe madonnare, il prossimo Tour promette bene».
Scrisse Manuel Vázquez Montalbán, a proposito di letteratura sportiva, «Sono gli scrittori sudamericani a trasformare il calcio in una specie di epica moderna», a loro si può aggiungere certo l’italiano Gianni Mura, il continuatore del lavoro intrapreso da Gianni Brera.

Non gioco più, me ne vado, Gianni Mura (2013, il Saggiatore, 504 pagine. 17 euro)

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