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Euro 2020, Quando Sir Alf Ramsey disse: Rivera, Rivera, Rivera, Rivera

Correva l’anno 1973, la televisione trasmetteva in bianco e nero e l’Italia del calcio non aveva mai vinto contro l’Inghilterra a Wembley.

Anche quel giorno sembrava che le cose dovessero andare così. Mancavano quattro minuti alla fine della partita e il risultato era sempre sullo 0-0.

Era il 14 novembre del 1973, Italia e Inghilterra si affrontavano in amichevole in preparazione dei mondiali del 1974 in Germania. Sulla panchina dell’Italia sedeva Ferruccio Valcareggi, su quella degli inglesi, Sir Alf Ramsey. L’Italia scende in campo con Dino Zoff tra i pali, Spinosi, Facchetti, Bellugi e Burnich i quattro della linea difensiva, Benetti, Causio, Capello e Rivera a centrocampo, Chinaglia e Rombo di Tuono, al secolo Gigi Riva in attacco. L’arbitro della partita è un portoghese, Marques Logo.

Quell’Italia pur avendo tanta qualità nei suoi calciatori, Zoff, Facchetti, Causio, Capello, Rivera, Riva non è fautrice di un gioco propositivo, ma tende ad aspettare gli avversari e concede loro il pallino del gioco. Gli inglesi attaccano ventre a terra per tutto il primo tempo e solo un Dino Zoff in grande spolvero evita agli azzurri una debacle.

Il secondo tempo propone una gara diversa perché gli inglesi sono meno irruenti e creano una sola palla gol, mentre gli azzurri si rendono pericolosi in più di un’occasione ed è bravo Shilton, il portiere dei maestri del calcio a mantenere il risultato in parità.

Quando tutto faceva pensare ad un risultato a reti bianche ecco invece che Fabio Capello decide di legare il suo nome alla storia del calcio azzurro, siglando la rete dell’1-0 che consente all’Italia di battere gli inglesi a Wembley per la prima volta nella loro, gloriosa, storia.

Nelle interviste del dopo partita arriva anche la consacrazione per il calciatore italiano più talentuoso di tutti i tempi. Un giornalista chiede all’allenatore degli isolani chi fossero i quattro giocatori italiani più forti rispose. Sir Alf Ramsey, risponde: «Rivera, Rivera, Rivera, Rivera».

Un buon viatico per la nazionale azzurra di Roberto Mancini, il santuario del calcio è già stato profanato e se è successo, può succedere ancora.

L’Italia di Euro2020 gioca un calcio propositivo, bello da vedere e, soprattutto, efficace. Abbiamo una squadra coesa che gioca insieme e abbiamo calciatori di grande talento. Una squadra che può vincere con un calcio collettivo, ma anche grazie alla giocata di un singolo.

Sarà una bella sfida. Lo sarà per i calciatori che scenderanno in campo perché hanno l’opportunità di una consacrazione che resterà per sempre nella storia del calcio italiano e lo sarà anche per chi guarderà la partita allo stadio o in televisione. Una sfida tra due squadre giovani che giocano un calcio propositivo e pensato per far divertire tutti gli appassionati.

«Ce l’abbiamo fatta con la forza del gruppo. I portieri che mi hanno preceduto in Nazionale hanno fatto la storia, proverò a batterli, le emozioni di questa sera non si possono descrivere» (Gigio Donnarumma)

Aveva ragione Mancini, in questa Italia sono tutti titolari

«Ma come parla? Come parla? Le parole sono importanti…Come parlaaa…».

È un dialogo di una delle scene cult del film Palombella rossa di Nanni Moretti. In quel caso il concetto dell’importanza delle parole era riferito ai luoghi comuni che, spesso, si usano nel linguaggio che usiamo quotidianamente, sempre più figurato e meno preciso, puntuale, aderente alla realtà, infarcito di luoghi comuni.

E invece come ammonisce Nanni Moretti, le parole sono importanti. Lo sono sempre e in qualunque contesto.

Sin dall’inizio di Euro2020 il commissario tecnico della nazionale italiana, Roberto Mancini, ha ripetuto che questa squadra azzurra, la sua squadra azzurra, non ha riserve ma sono tutti titolari. Un concetto molto diffuso nel mondo del calcio che quasi sempre non corrisponde alla realtà dei fatti. E non corrisponde per due ragioni. La prima è che il più delle volte questa affermazione è falsa, pura fiction, la seconda che molti allenatori costruiscono la fortuna sportiva di alcune squadre affidandosi ad un gruppo di fedelissimi, o, com’è in voga dire ultimamente, di titolarissimi.

La prima opzione non la commentiamo perché il falso non deve avere cittadinanza in nessun contesto, tantomeno in competizioni sportive, la seconda invece ha una sua, solida, validità.

Ci sono allenatori che teorizzano la costruzione di una squadra con undici titolari più un paio di ricambi. Questo è il motivo per cui ci sono formazioni che impariamo a memoria e altre che dimentichiamo in fretta.

È il caso dell’Inter di Helenio Herrera, del Milan di Arrigo Sacchi, della nazionale campione del mondo in Spagna del 1982.

Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Milani (Peiró, Domenghini), Suárez, Corso.

Galli, Tassotti, Maldini, Costacurta, Franco Baresi, Rijkaard, Colombo, Donadoni, Ancelotti, Van Basten, Gullit.

Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati (Bergomi), Scirea, Bruno Conti, Tardelli, Paolo Rossi, Antognoni, Graziani (Altobelli).

Non è il caso dell’Italia di Roberto Mancini che si è conquistata sul campo la possibilità di contendersi il titolo di Campione d’Europa. L’allenatore azzurro ha sempre sostenuto di avere 26 titolari e le sue scelte, le prestazioni in campo dei calciatori, che è tutto vero.

Nel percorso che ha portato l’Italia in finale hanno giocato tutti i calciatori presenti in rosa tranne Meret, il terzo portiere.

In questo senso è paradigmatica la partita disputata contro la Spagna. Ecco gli undici schierati all’inizio della partita.

Donnarumma, Di Lorenzo, Bonucci, Chiellini, Emerson, Barella, Jorginho, Verratti, Chiesa, Immobile, Insigne.

Una gara in cui l’Italia ha saputo soffrire per imporsi, dopo 120 minuti, ai calci di rigori. Nel corso della gara sono entrati in campo Toloi per Emerson, Locatelli per Barella, Pessina per Verratti, Bernardeschi per Chiesa, Berardi per Immobile e Belotti per Insigne.

Mancini non ha avuto problemi nel sostituire i calciatori più dotati calcisticamente, quelli in grado di risolvere la partita anche da soli. E dunque Immobile, Insigne, Verratti, Barella, Chiesa hanno lasciato il posto ai loro compagni della partita.

Lo aveva detto Mancini, sono tutti titolari. E lo ripetono i calciatori, siamo tutti titolari. Il calcio è un gioco di squadra in cui anche il più dotato tecnicamente non vince se non si pone al servizio del collettivo.

Quella di Mancini, oltre ad essere una bellissima storia sportiva è anche una grande lezione per tutti gli italiani. Si vince stando insieme soprattutto nei momenti di difficoltà. Gli era stato affidato l’incarico di allenare la nazionale italiana di calcio dopo l’eliminazione ai mondiali di Russia del 2018 e dopo tre anni ha riportato l’Italia calcistica ad essere una squadra rispettata, temuta e vincente.

Le parole sono importanti e di Roberto Mancini ci possiamo fidare.

Adesso manca solo una partita alla fine di Euro2020, quella più importante che si disputerà l’11 luglio.

Un giorno bello l’11 luglio, bellissimo.07

Euro2020, l’attesa per Belgio-Italia

I numeri nel calcio sono importanti, ma non sono tutto.

I numeri dicono che delle quattro partite dei quarti di finale di Euro2020, tre hanno una favorita e una soltanto è in bilico.

Il ranking UEFA per nazioni vede infatti le otto squadre rimaste in lizza per la vittoria finale, rispettivamente in queste posizioni: Inghilterra (prima), Spagna (seconda), Italia (terza), Belgio (nona), Ucraina (dodicesima), Danimarca (quattordicesima), Repubblica Ceca (diciassettesima) e Svizzera (diciannovesima).

Ovviamente i numeri non sono tutto e il prossimo avversario dell’Italia, il Belgio, è molto temibile.

Una squadra ben organizzata con tanti calciatori di talento in rosa. De Bruyne, Hazard, Mertens, Courtois e Romelu Lukaku, sono atleti di primissima fascia. Campioni in grado di risolvere la partita in qualsiasi momento sia con giocate personali sia con trame di gioco collettive.

Sarà una partita difficile per i ragazzi di Roberto Mancini.

Conterà molto la condizione fisica, se gli azzurri saranno brillanti come nelle prime tre partite disputate fino ad oggi la gara potrebbe essere più semplice del previsto.

La nazionale italiana di calcio fonda la sua ragione d’essere sul gioco. Un ordito imparato a memoria da tutti i protagonisti scelti da Mancini, questa la certezza degli azzurri. La squadra è sempre alla ricerca della palla e predilige giocare nella metà campo avversaria. Utilizza molto l’ampiezza del campo di gioco, ma non disdegna giocate in verticale utilizzando l’attitudine di Immobile ad attaccare la profondità. Un gioco bello da vedere, ma molto dispendioso da un punto di vista fisico che richiede perciò una condizione ottimale.

L’Italia vista nelle prime tre partite è stata una squadra molto reattiva, veloce e resistente. Ci sarà bisogno delle stesse, identiche, qualità.

Se la difesa è affidabile e difficilmente tradisce grazie anche al grande lavoro di Jorginho e dei suoi compagni di reparto, i tre attaccanti dovranno superarsi ed essere determinati per continuare un percorso fino ad oggi esemplare.

Ci sarà bisogno del miglior Lorenzo Insigne e dei gol di Ciro Immobile. Di rivedere il Berardi dei tempi migliori, il calciatore in grado di saltare sistematicamente l’uomo e di cercare i compagni di reparto. Mai come in questa partita i destini degli azzurri sono nei piedi degli attaccanti.

E se loro tre non dovessero bastare ci sarebbe sempre Federico Chiesa, l’uomo in più che l’Italia ha e le altre squadre non hanno. Fino ad oggi è stato esemplare, determinante. Euro2020 può consacrarlo come uno dei migliori calciatori d’Europa, deve trovare una continuità maggiore nelle giocate e, soprattutto, giocare di più per la squadra e con la squadra. Questo è il salto di qualità che gli si chiede.

Se sarà capace di fare questo l’Italia potrà contare su un campione vero per molti anni ancora.

Euro2020, l’Italia di Mancini (e Vialli), gemelli del gol

Dalla metà degli anni Ottanta e fino agli Novanta sono stati i Gemelli del gol. Dicevi Mancini e pensavi a Vialli, dicevi Vialli e pensavi a Mancini. Certo nel decennio precedente c’erano stati Pulici e Graziani che vinsero lo scudetto con il Torino di Gigi Radice, ma i ragazzi blucerchiati del presidente della Sampdoria, Paolo Mantovani, con le loro vittorie e la bellezza della loro gioventù resteranno per sempre i Gemelli del gol.

La partita Italia-Austria è durata novantacinque minuti e dopo un breve riposo è iniziato il primo tempo supplementare. Correva il minuto numero cinque quando Spinazzola, ancora una volta premiato dall’EUFA come miglior calciatore in campo, serve Federico Chiesa che si fa trovare pronto sul versante destro dell’attacco italiano. Dopo uno stop acrobatico e un notevole gioco di gambe, l’esterno azzurro segna la rete del vantaggio.

Ed è qui che bisogna fare un applauso grande, grandissimo, all’operatore che è riuscito ad immortalare l’immagine più bella di questo Campionato europeo di calcio.

Come se il tempo non fosse passato. Come quando giocavano e vincevano sui campi di calcio di tutta l’Italia. Come quando erano giovani, belli e amati da tutti. I Gemelli del gol ci fanno rivivere una scena alla quale abbiamo assistito tante volte.

Gianluca Vialli cerca Roberto Mancini e gli va incontro con le braccia allargate. Il Mancio cerca il suo numero nove e gli va incontro con le braccia allargate. Per un attimo il tempo è come sospeso. Un fermo immagine poco prima dell’abbraccio li ritrae sorridenti e felice proprio come quando segnavano con la maglia della Sampdoria e vincevano lo scudetto a Genova.

La posa è plastica. I loro corpi sono in tensione. Si guardano negli occhi e si abbracciano forte e a lungo.

Ho pianto di gioia. Penso lo abbiano fatto in molti ieri sera,

Mi sono tornate in mente le immagini di quando giocavano e segnavano ed erano felici.

Nell’immagine di ieri sera c’era la stessa carica agonistica, la stessa vigoria fisica. La stessa determinazione che li ha portati ad essere tra i migliori calciatori italiani di sempre.

C’era la cosa più importante di tutte: l’amicizia. La fratellanza.

Ecco cosa è capace di evocare una partita di calcio. Cosa è capace di evocare un gol.

L’indimenticato Luciano De Crescenzo fa dire al poeta in Così parlò Bellavista, «San Gennaro mio, non ti crucciare, lo sai che ti voglio bene. Ma na finta ’e Maradona scioglie ’o sanghe dind’e vene… E chest’è!».

La forza evocativa delle parole e dei gesti.

Mi verrebbe da pensare che anche ieri i calciatori italiani non si sono inginocchiati prima del fischio d’inizio della partita e a quanto sarebbe stato importante quel semplice gesto per tanti ragazzi e ragazze che si stanno esaltando per le loro vittorie.

Ma non voglio rovinarmi la gioia che mi ha procurato l’abbraccio tra Vialli e Mancini perché in quell’abbraccio ci sono tante cose. C’è la vita che continua e che va avanti.

Roberto Mancini, il fuoriclasse dell’Italia

«Se stessi con un vestito bianco a un matrimonio e arrivasse un pallone infangato, lo stopperei di petto senza pensarci», sono parole del più grande calciatore di tutti i tempi, passati e futuri, Diego Armando Maradona. Parole che esprimono, come meglio non si potrebbe, la passione per il gioco del calcio e il sentimento che prova chiunque ami questo sport quando vede rotolare davanti ai propri piedi un pallone.

Ed è esattamente ciò che è successo a Roberto Mancini, il commissario tecnico della nazionale italiana, nel corso dell’ultima partita degli azzurri.

La palla è nel cerchio di centrocampo tra i piedi del centrale difensivo del Galles che prova a cambiare gioco per la sua squadra con una lunga apertura alla sua sinistra per servire un compagno di squadra posizionato sulla linea di fondo in corrispondenza della panchina italiana.

Mancini segue la partita in piedi, al limite dell’area tecnica riservata agli allenatori ed è poco distante dalla linea di fondo.

Guardando la traiettoria del pallone capisce che sarà troppo lunga per il calciatore del Galles e, istintivamente, comincia ad arretrare verso la sua panchina. Arretra e guarda il pallone, poi con un gesto tanto naturale quanto elegante colpisce la palla di tacco smorzandone la corsa.

Sarà il gesto tecnico più bello di tutta la partita, un colpo da fuoriclasse.

Fuoriclasse lo è stato da calciatore, fuoriclasse si sta dimostrando anche come allenatore.

Fu acquistato per 700.000 lire dal Bologna quando aveva solo tredici anni e si trasferì da Jesi a Bologna. A 17 anni l’esordio in prima squadra e in serie A. Un predestinato che ha riscritto la storia sportiva della Sampdoria portandola a vincere uno storico scudetto e sfiorando la vittoria in Coppa dei Campioni, sogno svanito nella notte del 20 maggio 1992 a Wembley contro il Barcellona.

Dopo 15 anni nella Sampdoria, tre anni alla Lazio ricchi di vittorie e soddisfazioni.

Uno scudetto, la Coppa delle Coppe, una Supercoppa UEFA, due Coppe Italia e una Supercoppa italiana.

Avrebbe potuto giocare nella Juventus, nell’Inter o nel Milan, nelle squadre che solitamente vincono in Italia, ma scelse di restare alla Sampdoria e di provare a vincere a Genova. E ci riuscì.

A 35 anni smette con il calcio giocato e siede in panchina come secondo di Sven-Göran Eriksson alla Lazio. Poi allenerà Fiorentina, Inter (due volte), Manchester City, Galatasaray, Zenit San Pietroburgo e oggi la nazionale italiana.

Anche da allenatore le vittorie sono tante.

Una Coppa Italia con la Fiorentina e una con la Lazio, tre scudetti, due Coppe Italia e una Supercoppa italiana con l’Inter in Italia. Un campionato inglese, una Coppa d’Inghilterra e una Community Shield con il Manchester City. E infine una Coppa di Turchia con il Galatasaray.

Alla guida della nazionale italiana con 30 partite consecutive senza sconfitte, ha eguagliato il record di Vittorio Pozzo.

Un fuoriclasse anche in panchina.

Non ha mai avuto la grande stampa sportiva dalla sua parte, né da calciatore, tantomeno da allenatore. Anche oggi continua ad essere così perché dopo la serie incredibile di risultati positivi che sta conseguendo la nazionale italiana, non si leggono lodi all’allenatore. Si tende a sminuire il valore di queste vittorie attribuendole allo scarso valore degli avversari.

Sbagliarono a non esaltarlo da calciatore, sbagliano a non esaltarlo da allenatore della nazionale italiana.

Dopo il disastro sportivo di Gian Piero Ventura, sembrava un’impresa impossibile risollevare le sorti della nazionale italiana. E invece Roberto Mancini da Jesi ci è riuscito.

La sua nazionale gioca un bellissimo calcio e, soprattutto, vince.

Non sappiamo come proseguirà il cammino degli azzurri in questi campionati europei, sappiamo però che fino ad oggi ha vinto tre partite su tre e ha divertito i tifosi.

È un grande allenatore e vincerà anche con la maglia azzurra. Basta dargli tempo e fiducia totale come fece Paolo Mantovani alla Sampdoria. Riscrisse, insieme ai suoi compagni di squadra, la storia calcistica di quella squadra; oggi è pronto per arricchire la bacheca della squadra di tutti gli italiani.

Euro 2020, l’Italia e il tempo del bel calcio

Il livello tecnico e agonistico di questo campionato europeo di calcio è alto.

Francia, Belgio, Portogallo e Inghilterra, sembrano essere di un livello superiore a tutte le altre, ma ogni squadra ha mostrato di avere campioni in grado di risolvere, anche da soli, ogni partita.

Un discorso a parte merita l’Italia di Roberto Mancini.

Il percorso compiuto dagli azzurri fino ad oggi è straordinario. Dieci vittorie su dieci nella fase di qualificazione all’Europeo e due su due, entrambe per 3-0, in questo inizio di torneo. La squadra è imbattuta da 29 partite, dal 10 ottobre 2018 e non subisce gol da dieci partite, dal 14 ottobre 2020.

Eppure, in molti continuano ad esprimere perplessità, a sostenere che sia una squadra senza stelle di prima grandezza, che le manchi il campione assoluto.

Innanzitutto, la prima stella della squadra è Roberto Mancini, un allenatore sottovalutato in relazione a ciò che ha vinto fino ad oggi.

In Italia tre campionati e quattro volte la Coppa Italia, record che detiene a pari merito con Sven-Göran Eriksson e Massimiliano Allegri, due volte la Supercoppa italiana. In Inghilterra, una volta la Premier League e poi una FA Cup e una Community Shield. Infine, in Turchia una Coppa nazionale.

Se invece analizziamo la rosa della squadra italiana, mi chiedo e vi chiedo: Donnarumma, Lorenzo Insigne e Jorginho sono inferiori ai campioni delle altre squadre?

E ancora Marco Verratti, Ciro Immobile, Nicolò Barella, valgono meno di chi gioca nei loro ruoli nelle altre nazionali?

E ancora Domenico Berardi e Manuel Locatelli è facile trovarli in altre nazionali?

La partita contro la Svizzera ha messo in mostra proprio questi due gioielli che solo chi non mastica calcio quotidianamente non conosceva.

Berardi è nato nel 1994, compirà 27 anni il 1° agosto. Ha esordito in serie A quando aveva 19 anni e fino ad oggi ha disputato 275 partite segnando 97 reti. Non è una scoperta, è una certezza.

Manuel Locatelli è nato nel 1998 ed ha 23 anni. Ha disputato 144 partite in serie A, realizzando 8 reti. Anche in questo caso non è una scoperta, ma una certezza.

Entrambi hanno disputato le ultime stagione al Sassuolo sotto la guida di Roberto De Zerbi, 42 anni e 254 panchine fino ad oggi. 22 in serie D, 77 in Lega Pro e 114 in serie A. Anche in questo caso non una scoperta, ma uno dei migliori allenatori italiani.

Il primo gol realizzato dall’Italia contro la Svizzera è un concentrato di questa storia e racconta, in parte, questi numeri.

Locatelli riceve la palla nella metà campo dell’Italia, poco oltre il cerchio di centrocampo e, d’istinto, con un lancio di 40 metri, al volo e senza far toccare la palla a terra, serve Berardi posizionato con i piedi quasi sulla linea del fallo laterale. Berardi controlla e porta a spasso un avversario che non riesce a contrastarlo e si avvia verso la linea di fondo. Locatelli dopo il passaggio si lancia verso l’area di rigore avversaria con una falcata che ricorda il giovane Marco Tardelli. Berardi, arrivato sul fondo, alza leggermente la testa e vede il suo compagno libero al centro dell’area piccola. Passaggio rasoterra, irrompe Locatelli ed è gol. Italia 1, Svizzera 0.

Un modo di ragionare e di pensare il calcio non casuale.

Certo non si può insegnare ad un calciatore come fare un lancio di 40 metri al volo per servire un compagno, per quello occorre avere del talento naturale. Quello che si può insegnare e che De Zerbi prima e Mancini poi hanno insegnato a questi due gioielli di calciatori, è pensare il calcio come opportunità per cercare sempre la via del gol. Si possono insegnare i movimenti.

Locatelli sapeva che Berardi era posizionato in quel posto. Lo sapeva perché succede nel Sassuolo, e succede, anche, nella nazionale italiana. Il posto di Berardi è quello e lui era lì. Dopo il lancio è scattato in avanti per chiudere l’azione, sapeva che Berardi avrebbe cercato il fondo campo e rimandato la palla indietro, perché succede nel Sassuolo e succede nella nazionale italiana.

Così è stato. Niente di casuale, un modo di ragionare e di pensare il calcio.

Siamo ancora convinti che la nazionale italiana non abbia stelle in squadra?

E allora Roberto Mancini, Domenico Berardi e Manuel Locatelli, cosa sono?

Non si costruisce bel calcio senza campioni e, soprattutto, non si vincono tante partite senza calciatori eccelsi. Anche per questa ragione è sbagliato affermare che la squadra italiana non ha campioni.

Roberto Mancini ha scelto e costruito una squadra con calciatori tecnici. Una squadra che cerca il gol attraverso il bel gioco. Un calcio armonico, europeo, che sfrutta tutta l’ampiezza del campo, ma che non disdegna attaccare la profondità per linee verticali. Un calcio che si costruisce con un possesso palla mai fine a se stesso, ma che cerca, in ogni zona del campo in cui si sviluppa, la strada più breve per arrivare al gol. Per arrivare all’essenza stessa del gioco del calcio.

È bello vedere come le catene che si sviluppano per linee esterne seguano sempre un filo logico. Quando, in fase di possesso palla, Zappacosta avanza sul lato sinistro, Lorenzo Insigne si preoccupa di coprire la porzione di campo che resta sguarnita e viceversa.

È bello vedere le incursioni di Barella e Locatelli che accompagnano sempre l’azione quando si sviluppa per linee verticali.

È bello vedere Ciro Immobile attaccare lo spazio e dettare il tempo del lancio a Jorginho o a Lorenzo Insigne.

È bello vedere, infine, lo spirito di squadra che l’allenatore e il suo gruppo di lavoro hanno saputo creare. È bello vederli sorridere, abbracciarsi. Gioire insieme. È bello vedere e riconoscere la spensieratezza della gioventù.

Il viaggio è iniziato e, come abbiamo imparato da Ulisse in poi, ciò che conta non è la meta ma il viaggiare stesso. E il viaggio della nazionale italiana di Roberto Mancini, appena iniziato, è già un gran bel viaggiare.

Euro2020, l’Italia per vincere ha bisogno dell’attacco

Il calcio italiano prima dell’avvento di Arrigo Sacchi è sempre stato identificato con un modulo, spesso, vincente: catenaccio e contropiede.

Certo anche prima dell’arrivo del mago di Fusignano c’erano stati allenatori che avevano introdotto nuovi concetti di gioco e con quelli avevano anche vinto.

Primo fra tutti Fulvio Bernardini che vinse lo scudetto con la Fiorentina e il Bologna sconfiggendo, in quello che rimane l’unico spareggio disputato per aggiudicarsi il campionato italiano, l’Inter euromondiale di Helenio Herrera.

Corrado Viciani e il suo «gioco corto» della Ternana del 1970 che possiamo definire, oggi a distanza di cinquant’anni, antesignano del Tiki-Taka di Pep Guardiola.

La zona totale di Luis Vinicio con il Napoli dei primi anni Settanta e quella più compassata ma vincente di Nils Liedholm della Roma tricolore del 1982.

Il Torino scudettato di Gigi Radice del 1976 che aveva in Claudio Sala, Ciccio Graziani e Paolo Pulici il più bel trio di attacco di quegli anni.

Poi irrompe sulla scena calcistica italiana e mondiale Arrigo Sacchi da Fusignano che rompe definitivamente gli schemi e traghetta il calcio italiano, tutto, verso nuovi lidi.

Dominare sempre la partita, puntando su una difesa fortissima, Tassotti, Costacurta, Franco Baresi e Paolo Maldini, ma accentuando la valenza offensiva della squadra. Il Milan di Sacchi fu la prima squadra italiana capace di imporre il proprio gioco anche in Europa e contro grandi squadre come solo l’Olanda di Rinus Michels aveva saputo fare prima.

E veniamo ad oggi, all’Europeo che inizia domani 11 giugno con la partita Italia-Turchia.

La nazionale italiana di Roberto Mancini è una buona squadra con calciatori di talento tutti utilizzati nella posizione migliore e non poteva essere altrimenti conoscendo il passato calcistico di Mancio.

Una squadra che ha stabilito molti record positivi facendo di Mancini, indipendentemente dall’esito della prossima competizione, uno dei migliori allenatori della nazionale.

La forza di questa squadra è la capacità di cercare il gol attraverso il gioco senza mai snaturarsi, ma soprattutto la forza risiede nel gruppo che l’allenatore ha saputo creare. Chi entra sa quello che deve fare e, ad oggi, non sembra ci siano gelosie tra i calciatori. Valga per tutti il rapporto di stima e amicizia tra Ciro Immobile e Andrea Belotti.

L’Europeo lo vincerà la squadra che utilizzerà al meglio la sua capacità offensiva. La squadra che metterà i suoi attaccanti nelle condizioni migliori per poter vincere le partite e da questo punto di vista Roberto Mancini, da grande attaccante qual è stato, ha sempre creduto ciecamente nei suoi uomini gol.

Primo fra tutti Lorenzo, il primo violino, Insigne. Il capitano del Napoli è il fulcro di questa squadra, l’uomo attorno al quale ruota tutto. Segna, regala assist, è capace di rientrare con grande continuità in fase di non possesso. Un calciatore completo che ha pochi eguali anche in Europa.

Se successo sarà, ovvero se l’Italia disputerà un grande campionato europeo, molto dipenderà dalle sue prestazioni così come da quelle di Ciro Immobile, il bomber della Lazio del neo allenatore Maurizio Sarri.

Insigne, Immobile e Marco Verratti, «I bambini di Zeman», il primo voluto fortemente già a Foggia dal duo Zeman-Pavone, nel 2012 sbancarono il campionato di serie B sono con un calcio che Arrigo Sacchi definì in questo modo, «Il Pescara di Zeman ha stravinto il campionato si serie B grazie a un calcio sontuoso, moderno, armonioso […] si ricorderà per molto tempo dello spettacolo gratificante che questa squadra ha saputo concedere a tutti gli amanti di un calcio futurista».

In quel campionato la squadra guidata da Insigne, Immobile e Verratti si classificò al primo posto davanti al Torino e alla Sampdoria conquistando 83 punti. Vinse 26 partite (12 in trasferta) segnando 90 reti. Questi i riconoscimenti conferiti alla squadra adriatica dalla Lega di serie B per quella stagione: Pescara migliore squadra del campionato, Zdeněk Zeman miglior allenatore, Lorenzo Insigne miglior attaccante e Ciro Immobile capocannoniere del torneo.

Servirà una squadra capace di segnare molto e di giocare nella metà campo degli avversari. Servirà una squadra in grado di fare un gol in più degli avversari per fare bene e vincere.

Le premesse ci sono tutte, adesso tocca al campo.

Chi, dopo Prandelli?

Spifferi provenienti dallo spogliatoio azzurro in Brasile rischiano di far diventare ancor più dolorosa la negativa trasferta mondiale della squadra di Prandelli. Perché se è vero e palese il fallimento tecnico dell’allenatore di Orzinuovi non erano noti i malumori dello spogliatoio. La sensazione è che l’allenatore non fosse più il punto di riferimento del gruppo, anzi che il gruppo, forse, non c’è mai stato. Certamente non era un gruppo coeso e per affermare questo non c’è bisogno di dare credito o meno alle indiscrezioni, basta riascoltare le dichiarazioni post partita di Buffon, De Rossi e dello stesso Prandelli.
Uno spogliatoio che non ha saputo tenere insieme le nuove forze con quelle già presenti, soprattutto che non ha compreso le indecisioni del tecnico. Indecisioni che hanno riguardato le convocazioni, l’assetto tattico della squadra e la scelta degli uomini da schierare.
Cesare Prandelli ha dunque delle responsabilità che vanno molto oltre il fallimento tecnico della spedizione, riguardano l’incapacità di tenere insieme una squadra. Bene dunque ha fatto a rassegnare le sue dimissioni subito dopo la fine dell’avventura mondiale. Questa decisione permetterà ai dirigenti di poter operare una scelta immediata e senza essere condizionati da contratti in corso.
A leggere le cronache di questi giorni sono diversi i candidati per la panchina azzurra, anche se nessuno di questi ha rilasciato dichiarazioni in questo senso. In prima fila ci sarebbero Massimiliano Allegri e Roberto Mancini, più staccato Francesco Guidolin. Tra i papabili ci sarebbe anche Luciano Spalletti, ma il contratto esoso in essere con la sua ex squadra impedisce qualunque trattativa in merito. Infine qualche possibilità potrebbe averla anche Alberto Zaccheroni che ha guidato il Giappone prima alle qualificazioni e poi al campionato mondiale in Brasile.
Il totonomi non dovrebbe durare molto anche perché all’inizio di settembre la nazionale sarà di nuovo in campo per preparare un nuovo ciclo che ha come obiettivi i prossimi campionati Europei e i mondiali del 2018.
I nomi degli allenatori in corsa per la panchina azzurra sono tutti professionisti validi, io ho una leggera preferenza per Roberto Mancini, e dunque se la scelta dovesse ricadere su uno dei nomi segnalati, il futuro della nazionale italiana potrebbe essere, molto presto, un futuro di nuove vittorie.
In molti sostengono che la crisi della nazionale di calcio non sia solo figlia del fallimento tecnico di Prandelli, ma che riguardai l’intero movimento calcistico italiano. C’è una parte di verità in questo, ma credo che la rosa a disposizione di Prandelli, allenata e soprattutto gestita in altro modo, potesse valere almeno i quarti di finale del mondiale.
L’auspicio è che il nuovo allenatore, o commissario tecnico, si dimostri capace di resettare tutto e ripartire con un nuovo gruppo. Non è soltanto una questione anagrafica, anche, è soprattutto una questione di educazione e rispetto delle regole che una squadra di calcio deve avere. Prandelli aveva iniziato bene in questo senso istituendo un codice etico accettato da tutti i calciatori. Abbiamo visto però che in due occasioni quel codice non è stato rispettato e, forse, l’inizio della fine è iniziato proprio in quel momento.
Sirigu, De Sciglio, Darmian, Verratti, Marchisio, Candreva, Cerci, Immobile, Insigne. E poi ancora Florenzi, Destro, Berardi, Scuffett. Non mancano i calciatori di qualità, manca un allenatore che sappia osare. Un allenatore capace di mettere in campo una squadra che cerchi sempre la via del gol attraverso il bel gioco. Ce la possiamo fare, dobbiamo solo crederci.

Piccolo allenatore, piccola Italia

L’Italia di Cesare Prandelli è stata eliminata al primo turno dei mondiali brasiliani, così come successe alla squadra di Marcello Lippi nel 2010. Il tecnico di Orzinuovi fu chiamato al capezzale azzurro proprio per porre rimedio alla brutta figura rimediata in Sudafrica. Quell’Italia fu eliminata senza mai vincere una partita. Pareggiò per 1-1 contro il Paraguay e la Nuova Zelanda e perse 3-2 contro la Slovacchia. La nuova Italia di Prandelli ha vinto la partita d’esordio contro l’Inghilterra, eliminata anch’essa con gli azzurri, e ha perso contro Costa Rica e Uruguay.
Una brutta, bruttissima Italia, assemblata male e messa in campo peggio, abbandona giustamente il mondiale brasiliano. Un mondiale che fino ad oggi ha regalato agli appassionati di calcio tante belle partite, soprattutto squadre in grado d’imporre il proprio gioco e di segnare anche tanti gol.
Prandelli, nelle tre partite disputate, ha schierato tre formazioni diverse con altrettanti moduli di gioco, dimostrando sul campo di non aver maturato nessuna certezza né in merito ai calciatori da convocare, tantomeno al sistema di gioco con cui competere.
Costretto, vox populi e dai media, a convocare calciatori come Verratti, Insigne, il capocannoniere del campionato Ciro Immobile e Alessio Cerci, che non erano nei suoi propositi, non è riuscito a dare un’idea di gioco e un’anima alla sua squadra. Ha puntato tutto su Mario Balotelli e su un gruppo di senatori, capitanati da Buffon e De Rossi, che, un minuto dopo il triplice fischio finale della partita contro l’Uruguay che ha sancito l’eliminazione degli azzurri, non hanno saputo far altro che addossare le responsabilità della sconfitta ai giovani della rosa. I due, che si son fatti coraggio dopo le dichiarazioni di Prandelli che andavano nella stessa direzione, «mi aspettavo di più dai cambi», ignorano che i migliori per l’Italia, pur nella pessima prestazione collettiva, sono stati proprio i giovani Darmian e Verratti. Il primo dopo un esordio molto positivo sulla corsia di destra è stato spostato a sinistra nella partita successiva, mentre Verratti, tra i migliori in campo anche all’esordio, è stato spedito in panchina per essere riproposto nell’ultima partita contro l’Uruguay. Insigne e Cerci hanno potuto giocare solo uno spezzone di partita, mentre Immobile, colpevolmente lasciato fuori nelle prime due partite per far posto a Balotelli, è stato impiegato solo nell’ultima gara in una squadra incapace di costruire gioco. De Sciglio, infortunato, ha giocato solo nell’ultima gara contro Cavani & company.
Dunque, andando per esclusione, i due senatori della squadra, quando hanno parlato dei giovani, intendevano dire Mario Balotelli. E dunque, se è così, perché non hanno detto che si riferivano proprio al giocatore del Milan?
Da quando seguo il calcio è la prima volta che mi capita di ascoltare dichiarazioni di questo tipo, calciatori che parlano male di calciatori della stessa squadra e dopo una sconfitta che, al contrario, chiama in causa tutta la delegazione a cominciare dall’allenatore.
Una squadra dunque allestita male e gestita peggio. Due attaccanti di ruolo su sei possibili convocazioni e tanti esterni convocati e mai utilizzati. Tanto valeva convocare Gilardino oppure Destro se l’unico schema di gioco era il lancio, «illuminate» o «come la lampada di Aladino» così continuavano a dire incompetenti commentatori televisivi, di Andrea Pirlo.
Nella conferenza stampa post partita Cesare Prandelli annuncia le proprie, irrevocabili, dimissioni e dunque per l’Italia comincia una nuova era.
Prandelli lascia dunque l’Italia così come l’aveva ereditata, con una débâcle che non ammette giustificazioni. L’Italia del calcio ha perso ancora una volta. Prandelli non è, ovviamente, l’unico responsabile, con lui ha perso tutto il sistema calcio del nostro Paese che andrà rifondato dalle fondamenta. Ma Prandelli, così come quattro anni fa Lippi, ha fatto di tutto per essere ricordato come il peggiore della spedizione italiana in Brasile.

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