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Tutti i libri della nuova stagione di Calcio Totale

La strenna natalizia di Pagina Tre è il riepilogo di tutti i libri di cui abbiamo parlato in queste prime tredici puntate della  nuova stagione.

1ª puntata_4 settembre 2015
Il giorno perduto. Racconto di un viaggio all’Heysel
Gian Luca Favetto, Anthony Cartwright
(2015, 66THAND2ND, 330 pagine. 18,00 euro)
Intervista con l’autore, Gian Luca Favetto

2ª puntata_9 settembre 2015
Io Ibra
David Lagercrantz, Zlatan Ibrahimovic
(2013, BUR, 389 pagine)

3ª puntata_18 settembre 2015
Che gusto c’è a fare l’arbitro
Nicola Rizzoli
(2015, Rizzoli, 339 pagine)

4ª puntata_25 settembre 2015
Ho osato vincere
Francesco Moser, Davide Mosca
(2015, Mondadori, 228 pagine. 19,00 euro)

6ª puntata_9 ottobre 2015
SLA, il male oscuro del pallone
Massimiliano Castellani
(Goalbook)
Intervista con l’autore, Massimiliano Castellani

7ª puntata_16 ottobre 2015
Storia del gol. Epoche, uomini e numeri dello sport più bello del mondo
Mario Sconcerti
(2015, Mondadori, 348 pagine)
Intervista con l’autore, Mario Sconcerti

8ª puntata_30 ottobre 2015
Pier Paolo Pasolini e il calcio

9ª puntata_6 novembre 2015
Michael Joordan, la vita
Roland Lazenby
(2015, 66THAND2ND, 779 pagine)
Intervista con Martino Michele, redazione 66thand2nd

10ª puntata_13 novembre 2015
I cantaglorie. Una storia calda e ribalda della stampa sportiva
Gian Paolo Ormezzano
(2015, 66THAND2ND, 184 pagine)
Intervista con l’autore, Gian Paolo Ormezzano

11ª puntata_4 dicembre 2015
Non dire gatto. La mia vita sempre in campo, tra calcio e fischi
Giovanni Trapattoni, Bruno Longhi
(2015, Rizzoli, 397 pagine)
Intervista con l’autore, Bruno Longhi

12ª puntata_11 dicenbre 2015
Vite vere. Compresa la mia.
Beppe Viola
(2015, Quodlibet, 288 pagine)
Intervista con lo scrittore, Gino Cervi

Ho osato vincere, Francesco Moser con Davide Mosca

Ci sono campioni dello sport che restano impressi nella memoria di ognuno di noi e che ci segnano indipendentemente dalle vittorie. Le vittorie, i record, le belle prestazioni, sono importanti, sono l’essenza stessa dello sport, ma il campione è tale se ha qualcosa in più. Qualcosa che va oltre la vittoria, il record o la prestazione straordinaria. Il campione sa incendiare i cuori anche quando non vince, soprattutto quando non vince. Crea senso di appartenenza. Soprattutto il campione non invecchia mai, resta fisso, immobile, nella tua mente con la stessa, identica, faccia che non conosce età e tempo. Francesco Moser è uno di questi. Un campione che ha fatto piangere di gioia generazioni di appassionati di ciclismo e che resta, ancora oggi, uno dei campioni più amati di tutti i tempi dello sport italiano. Un campione che ha vinto molto e che è sempre rimasto umile e legato alla sua terra d’origine, ai valori con i quali è cresciuto, alla sua gente.
«Palù è rimasto il perno attorno al quale ha ruotato tutta la mia vita, benché nel corso degli anni il raggio della ruota si sia allungato fino ai confini della terra, dal Venezuela, dove ho conquistato la maglia iridata, al Giappone, dove sono stato il primo ciclista italiano a gareggiare. Non importa fin dove sono arrivato. Sono sempre tornato qui, dopo ogni vittoria come dopo ogni sconfitta. Perché nessuno può restare se stesso senza le proprie radici».
Ho osato vincere, l’autobiografia di Francesco Moser è, soprattutto nella sua prima parte, l’autobiografia di una famiglia che ha dato molto al ciclismo italiano ed è contemporaneamente il racconto di un’Italia che sapeva lottare ed emanciparsi senza snaturare la sua natura.
«Un giorno di fine giugno Aldo mi propone un giro in bicicletta. Ho compiuto diciotto anni da una settimana e sento ancora quello strano nodo alla gola. Per una volta tanto provo a spingere, se non altro per ricacciare indietro il groppo, quella sensazione di essere nei pressi di un valico sconosciuto e di non sapere cosa ti aspetta al di là, se sole o pioggia, neve o vento. Nel frastuono dei pensieri non sento mio fratello Aldo che mi urla di aspettarlo. È rimasto indietro sulla salita di Palù.
Appena rientro a casa annuncio che correrò. Il più sorpreso sono io».
In casa erano in undici, esclusi mamma e papà. Aldo, Enzo e Diego, tre dei suoi fratelli sono stati ciclisti professionisti. Inizia a gareggiare tardi, dopo aver compiuto i diciotto anni, perché dopo la morte del padre c’era bisogno che qualcuno si occupasse del lavoro nei campi. Un inizio per niente facile, soprattutto perché Francesco Moser è uno che non abbassa la testa di fronte a nessuno. È abituato a lottare e a battersi per le proprie idee.
«Aprire nuove strade sembra il mio destino fin dal principio. Come quando mi rifiuto di partecipare al Giro. Mai nessuno italiano di classifica si è sognato di disertare un Giro d’Italia per manifestare il proprio dissenso agli organizzatori. Mai nessuno si è spinto così avanti. Io, si. […] Quando la Filotex ufficializza la rinuncia al Giro scoppia la bomba. Gli organizzatori non possono accettarlo, mettono in campo addirittura un paio di ministri per fare pressioni. La linea Roma-Prato e Milano-Prato è rovente. Ma io sono irremovibile. “Non siamo schiavi. Abbiamo il diritto di dire di no».
Vincente fin dalle prime gare, si capisce subito che il più giovane dei Moser ha la stoffa del campione. Difficile da gestire, ma è uno che “morde” la strada. Subito dopo il gran rifiuto al Giro d’Italia e non prima di aver vinto alcune gare in Francia, si presenta a Pescara per il campionato italiano su strada.
«Pochi giorni prima del Tour, mi presento alla partenza del Campionato italiano forte delle belle vittorie in terra transalpina. Il titolo si assegna a Pescara in occasione del Trofeo Matteotti. È una giornata di caldo torrido, si ha difficoltà perfino a muoversi, figurarsi a pedalare a tutta. Il percorso di 260 chilometri è molto impegnativo, di quelli che piacciono a me, e con la temperatura di oggi è quasi proibitivo […] Vinco davanti a Valerio Lualdi e Costantino Conti, conquistando la prima maglia tricolore da professionista, dopo quella da dilettante. Nell’anno in cui ho detto di no al Giro, divento campione d’Italia. L’Italia mi ama e io sento di amarla».
Una delle 273 vittorie su strada che ne fanno il più vincente corridore italiano di tutti i tempi e il terzo al mondo. Impossibile nominarle tutte, così come difficile dire qual è la più bella. Certo ci sono alcune vittorie che, forse, sono, più belle di altre.
«È una domenica d’aprile del 1978. La Pasqua è stata celebrata da tre settimane, ma oggi è giorno di morte o resurrezione. È giorno di Parigi-Roubaix […]Nevischia alla partenza. Poi si scatenano gli altri elementi: pioggia, sole e vento […] A ventidue chilometri dal traguardo scatto. Maertnens e Raas tentano di venirmi a riprendere con De Vlaminck a ruota, ma resisto […] Appena entro nel velodromo il pubblico schizza in piedi. I francesi mi hanno adottato. Mi applaudono, scandiscono il mio nome […] Sto arrivando, amici. Sto arrivando. Alzo le braccia al cielo. Ed è arcobaleno su Roubaix».
La Parigi-Roubaix vinta per tre volte e l’amore dei francesi per Francesco Moser occupano certamente uno dei tre gradini sul podio nella speciale classifica delle vittorie più belle.
«Lunedì scendo in pista alle nove. Le tribune sono piene in ogni ordine di posto […] Fa ancora freddo e c’è vento. Gli uomini della Enervit sono nervosi […] Tranne Martini, nessun altro tecnico o direttore sportivo è giunto dall’Italia […] Fucacci ed Enzo mi aiutano a salire sulla bicicletta. Mi sento un bambino nelle loro mani. Mi imbullonano al mezzo meccanico e mi spingono. Sono una cosa sola con la bicicletta. Sono la bicicletta […] La tabella di marcia più ottimistica prevedeva un risultato vicino ai 51,2 chilometri. Sto sotto di pochissimo: chiudo coprendo 51 chilometri e 151 metri […] Balliamo sul tetto del mondo».
Il 51,151 realizzato a Città del Messico, nuovo record dell’ora e che proietta il ciclismo nel futuro, non sfigurerebbe sul secondo gradino del podio.
«All’ingresso di Verona l’urlo del pubblico sale di intensità. Solo all’imbocco del tunnel dell’Arena mi rilasso. In quei pochi metri di buio vedo una grande luce dai contorni rosati. Entro nell’anfiteatro ed è un tuffo nella luce e nella gioia. Un boato assordante scuote le fondamenta del secolare edificio e del mio animo. Ho corso a quasi 51 chilometri orari di media. Ho vinto il Giro d’Italia. Ho spezzato l’incantesimo […] Dopo il record dell’ora e la Milano-Sanremo, ecco il terzo atto della mia resurrezione. Oggi il paradiso è rosa».
La vittoria al Giro d’Italia non può che occupare il gradino più alto nel Palmarès di Francesco Moser. Il Giro che si era rifiutato di correre da giovanissimo e che gli creerà non pochi problemi per la sua futura carriera. Una vittoria che farà salire tutti sul carro del vincitore per “cantare” le lodi del campione che «ha riportato nei nostri anni Ottanta i giorni di Coppi e Bartali».
L’entrata all’Arena di Verona di quel 10 giugno del 1984 me la ricordo. Doveva recuperare 1 minuto e 21 secondi sulla maglia rosa, Laurent Fignon. Li recuperò e d andò oltre. Mi ricordo le mie lacrime di quel pomeriggio. Lacrime di gioia e di vicinanza per un atleta che aveva accompagnato la mia adolescenza e l’aveva traghettata nella gioventù. Lacrime liberatorie più belle di quelle versate per la Parigi-Roubaix, più intense di quelle versate per il record dell’ora. Lacrime indimenticabili e indimenticate perché vincere a casa propria è sempre più difficile che vincere altrove. Vale per noi, comuni mortali, valeva anche per Francesco Moser, il migliore di tutti.

Ho osato vincere, Francesco Moser con Davide Mosca (Mondadori, 2015. 222 pagine. 19,00 euro)

Contro il tiqui taca, Michele Dalai

Contro il tiqui taca. Come ho imparato a detestare il Barcellona, è una lunga dichiarazione d’amore per il calcio, perché solo chi ama davvero, “senza se e senza ma” mutuando il termine dal gergo ignorante della pubblicistica politica attuale, lotta contro i mulini a vento come Don Chisciotte della Mancia. Non essere in sintonia con il sentire comune, che vuole il Barcellona come la squadra migliore del mondo, e scriverlo nero su bianco non è da tutti. Dalai utilizza centoventi pagine per spiegare Urbi et Orbi perché il gioco del Barcellona, seppur vincente e in alcuni momenti anche bello da vedere, non è il calcio che piace a lui. E più scrive, più si rende conto che il suo punto di vista non è isolato, ma al contrario incontra molti estimatori. Come se in tanti aspettassero qualcuno che rendesse esplicito e pubblico questo pensiero.
«Il calcio è più bello del possesso palla» è la sentenza finale e inappellabile di Dalai che rende evidente, fin dalle prime pagine del libro, il suo curriculum. Leggi tutto

Dura solo un attimo la gloria, Dino Zoff

L’esordio letterario letterario di Dino Zoff non poteva essere migliore di questo: un’autobiografia essenziale così come essenziale è stato l’atleta Zoff e l’uomo Dino Zoff. Non a caso il libro è attraversato da alcuni figure totemiche come quella del padre di Zoff, il signor Mario, di Gaetano Scirea e del “Vecio” Enzo Bearzot. Un libro che vale la pena leggere perchè sono sempre rare le persone serie e in grado d’insegnare qualcosa. Dino Zoff è una di queste persone. Per chi vuole è a disposizione l’intervista con il capitano della nazionale iatliana campione del mondo nel 1982 in Spagna, nella puntata numero 8 di Calcio Totale.

Dura solo un attimo la gloria, Dino Zoff (2014, Mondadori, 180 pagine. 17 euro)

Nereo Rocco. La leggenda del paròn continua, Gigi Garanzini

Avvertenza per il lettore. Fin dalle prime parole si capisce che Gigi Garanzini è innamorato (perso) ancora oggi del Paròn e che dunque, se vi apprestate a leggere Nereo Rocco. La leggenda del paròn continua, dovete sapere che state per leggere un libro di parte. Dalla parte di un’Italia bella che non c’è più e di un calcio, altrettanto bello, cancellato e sostituito con una sua brutta copia dai nuovi protagonisti della scena: i procuratori dei calciatori e le pay tv. In parte anche dall’avvento del tatuaggio.
Un calcio che costruì la sua popolarità e la sua fortuna su personaggi autentici che i media utilizzavano per vendere meglio i loro prodotti e non viceversa.
La figura che emerge dalle pagine di Garanzini, e dalle tante testimonianze che l’autore ha raccolto e selezionato, è quella di un gigante del calcio e di un guru della comunicazione. Perché Nereo Rocco è stato tutto ciò: una carriera sportiva che ha pochi eguali e una vicenda umana unica e inimitabile. Una narrazione collettiva che inchioda il lettore alla poltrona dalla prima all’ultima parola e che emoziona e rapisce.
«Nel mio primo viaggio sulle orme del parón che immaginavo sbiadite e che invece come oggi erano solchi, scavati indelebilmente nella memoria dei suoi».
Dove i «suoi» non sono i parenti prossimi, ma le persone che l’hanno conosciuto e frequentato.
Una carriera, prima da calciatore e poi da allenatore, che ha visto il paròn crescere ed affermarsi nella propria terra, che non è riuscito mai a lasciare del tutto anche quando i successi mondiali lo costringevano a vivere in altre lidi.
«Strano rapporto quello di Rocco con Trieste. Non riusciva a starne lontano, ma nemmeno era capace di rimanerci […] Tornava, celebrava il suo rito irrinunciabile e scappava. Neppure d’estate, in tempo di vacanze, riusciva a resistere per più di una settimana […] la vera dimensione del suo amore per Trieste era quella della rimpatriata».
Trieste prima e Padova poi decretano il suo successo come allenatore. Un secondo posto dietro al Grande Torino con la Triestina e un terzo posto seguito sempre da ottimi piazzamenti con il Padova spingono a furor di popolo il paròn verso la panchina rossonera del Milan.
Garanzini si sofferma sui successi sportivi e sulle invenzioni tecnico tattiche di Rocco, ma il libro assume dimensioni epiche, come le gesta dell’uomo di cui qui si narra la vicenda, quando emerge l’aspetto umano e la grande capacità comunicativa del triestino che portò la Milano rossonera sulla cima del mondo.
Chi parla è Lello Scagnellato il capitano del Padova delle meraviglie del Paròn che così spiega i segreti di quello squadrone, «noi passavamo le giornate a tenerci la pancia con le mani, dal gran ridere: perché Rocco questo aveva creato: il divertimento continuo, e che divertimento. Nel calcio spesso ci si annoia a stare insieme, ad aver di fronte sempre le stesse facce: noi non vedevamo l’ora di ritrovarci per scoprire cos’altro si era inventato».
Un’armonia che iniziava nello spogliatoio e finiva spesso in qualche trattoria per bere un buon bicchiere di vino. Ancora Scagnellato che, come un fiume in piena, fa rivivere il paròn.
«Si cambiava con noi, divideva con noi la tavola, il tempo libero, le emozioni, le gioie, i dolori. Anche i quattrini, le ho detto che ero io a dividere i premi e lui era il primo a ritirare la sua parte, in mezzo a noi, senza formalità né tantomeno segreti».
Sono parole che utilizzano quasi tutti i suoi calciatori, siano essi atleti della Triestina, del Padova o del Milan, così come nel caso di Giuseppe Rosato, centrale dei rossoneri euro mondiali.
«Il suo segreto, in fondo, era semplice: la ricerca non del campione a ogni costo, ma del buon giocatore. A patto che fosse uomo. Se era uomo, gli andava bene anche il giocatore normale; se non lo era, non gli interessava nemmeno il campione perché sapeva che prima o poi si sarebbe rivelato un involucro vuoto».
Un grande psicologo innanzitutto e un uomo concreto che sapeva restare al proprio posto e con i piedi ben piantati per terra. Un uomo dotato di forte carisma e un grande innovatore.
«Era un uomo di cultura asburgica, dotato quindi di un grande senso della gerarchia. Da questo punto di vista mi portava grande rispetto […] Rocco arrivò e insieme impostammo la campagna trasferimenti: mio padre, io, lui e Passalacqua. Mi ero fatto l’idea, prima del suo arrivo, che per rilanciare il Milan avrebbe fatto chissà quali richieste. Alla fine prendemmo Hamrin, Malatrasi e Cudicini. Il saldo attivo tra acquisti e cessioni fu di 500 milioni. Diciamo 8-10 milioni di euro di oggi. E con quella squadra in due anni vincemmo tutto: campionato, coppa delle Coppe, Coppa dei Campioni e Intercontinentale».
Chi parla è Franco Carraro all’epoca dei fatti giovanissimo figlio del presidente del Milan che costruirà sulle fortune calcistiche dei rossoneri gran parte delle sue future fortune manageriali.
Oltre alle qualità umane c’è spazio, ovviamente, anche per le sue grandi qualità di tecnico.
Nereo Rocco è stato uno dei più grandi innovatori del calcio italiano introducendo il ruolo del battitore libero che prima del suo avvento sulla panchina della Triestina non esisteva. Ma soprattutto e a dispetto di una critica superficiale e cialtrona Nereo Rocco è stato un allenatore che ha sempre valorizzato i calciatori di classe e gli attaccanti.
Il grande vecio del calcio italiano, Enzo Bearzot, e grande amico del paròn così analizza «Le formazioni che schierava e com’erano sistemate in campo le sue squadre […] Prendiamo il suo Milan più bello? Tre attaccanti più Rivera. Cioè Hamrin a destra, Sormani al centro e Prati a sinistra. più Rivera per l’appunto. Vogliamo provare a fare dei paragoni?».
Appunto tre attaccanti più Gianni Rivera e c’è chi parla soltanto di re del catenaccio. Certo quando allenava la Triestina o il Padova era più propenso alla fase di non possesso come si direbbe oggi, ma quando ha avuto la possibilità di poter far giocare calciatori di qualità e grandi attaccanti lo ha sempre fatto con grande disinvoltura e ha vinto tutto quello che un allenatore può sperare di vincere, in Italia, in Europa e nel mondo. Sulla stessa lunghezza d’onda di Bearzot è anche Massimo Giacomini, tecnico preparato e fine conoscitore di calcio.
«È storicamente giusto che Rocco sia ricordato innanzitutto come uomo di spogliatoio, nelle sue varie accezioni […] nel suo Padova, oltre ad almeno due attaccanti di ruolo, giocavano Pison, Celio e Tortul che erano giocatori tecnici, e Humberto Rosa che era supertecnico […] A Torino giocava con Meroni, Combin e Simoni, o Facchin, tre attaccanti di ruolo. In più c’era Moschino, centrocampista creativo, e i terzini spingevano, soprattutto Poletti».
Non è un caso che il forte sentimento di amicizia che legava il paròn a Gianni Brera fosse messo in discussione solo dalla distanza di giudizio che li separava su Gianni Rivera, «Xe Rivera la nostra Stalingrado» soleva dire il triestino al padano di San Zenone al Po.
Ed è proprio l’ex golden boy del calcio nostrano, il primo italiano a vincere il pallone d’oro, che colloca il paròn nella dimensione che più gli è propria. «Prima di lui» confida Rivera a Gigi Garanzini, «si poteva non sapere il nome dell’allenatore di una squadra. Dopo non più. Rocco per primo e poi Herrera hanno dato visibilità a una categoria che sino a quel momento non l’aveva. Questa è storia del costume, prima ancora che del calcio in senso stretto».
E per tutti coloro che anche dopo aver letto questo bel libro continueranno a sostenere che il calcio, questo calcio di cui scrive Garanzini, sia una manifestazione umana di serie B e che non merita attenzioni valga una piccola strofa di Umberto Saba che proprio alla Triestina di Nereo Rocco dedicò memorabili versi.
«Giovani siete, per la madre vivi;
vi porta il vento a sua difesa. V’ama
anche per questo il poeta, dagli altri
diversamente – ugualmente commosso».
Sono giunto alla fine del libro e già mi manca il suono del suo «Ciò, perché mi sono di Francesco Giuseppe e la parola xe una», e penso che abbia avuto ragione Garanzini ha lascar parlar in triestino il paròn perché «Non si doppia una voce che torna dalla leggenda a rifarci un po’ di compagnia».

Nereo Rocco. La leggenda del paròn continua (2012, Mondadori, 216 pagine. 14,00 euro)

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