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Euro2020, l’Italia di Mancini (e Vialli), gemelli del gol

Dalla metà degli anni Ottanta e fino agli Novanta sono stati i Gemelli del gol. Dicevi Mancini e pensavi a Vialli, dicevi Vialli e pensavi a Mancini. Certo nel decennio precedente c’erano stati Pulici e Graziani che vinsero lo scudetto con il Torino di Gigi Radice, ma i ragazzi blucerchiati del presidente della Sampdoria, Paolo Mantovani, con le loro vittorie e la bellezza della loro gioventù resteranno per sempre i Gemelli del gol.

La partita Italia-Austria è durata novantacinque minuti e dopo un breve riposo è iniziato il primo tempo supplementare. Correva il minuto numero cinque quando Spinazzola, ancora una volta premiato dall’EUFA come miglior calciatore in campo, serve Federico Chiesa che si fa trovare pronto sul versante destro dell’attacco italiano. Dopo uno stop acrobatico e un notevole gioco di gambe, l’esterno azzurro segna la rete del vantaggio.

Ed è qui che bisogna fare un applauso grande, grandissimo, all’operatore che è riuscito ad immortalare l’immagine più bella di questo Campionato europeo di calcio.

Come se il tempo non fosse passato. Come quando giocavano e vincevano sui campi di calcio di tutta l’Italia. Come quando erano giovani, belli e amati da tutti. I Gemelli del gol ci fanno rivivere una scena alla quale abbiamo assistito tante volte.

Gianluca Vialli cerca Roberto Mancini e gli va incontro con le braccia allargate. Il Mancio cerca il suo numero nove e gli va incontro con le braccia allargate. Per un attimo il tempo è come sospeso. Un fermo immagine poco prima dell’abbraccio li ritrae sorridenti e felice proprio come quando segnavano con la maglia della Sampdoria e vincevano lo scudetto a Genova.

La posa è plastica. I loro corpi sono in tensione. Si guardano negli occhi e si abbracciano forte e a lungo.

Ho pianto di gioia. Penso lo abbiano fatto in molti ieri sera,

Mi sono tornate in mente le immagini di quando giocavano e segnavano ed erano felici.

Nell’immagine di ieri sera c’era la stessa carica agonistica, la stessa vigoria fisica. La stessa determinazione che li ha portati ad essere tra i migliori calciatori italiani di sempre.

C’era la cosa più importante di tutte: l’amicizia. La fratellanza.

Ecco cosa è capace di evocare una partita di calcio. Cosa è capace di evocare un gol.

L’indimenticato Luciano De Crescenzo fa dire al poeta in Così parlò Bellavista, «San Gennaro mio, non ti crucciare, lo sai che ti voglio bene. Ma na finta ’e Maradona scioglie ’o sanghe dind’e vene… E chest’è!».

La forza evocativa delle parole e dei gesti.

Mi verrebbe da pensare che anche ieri i calciatori italiani non si sono inginocchiati prima del fischio d’inizio della partita e a quanto sarebbe stato importante quel semplice gesto per tanti ragazzi e ragazze che si stanno esaltando per le loro vittorie.

Ma non voglio rovinarmi la gioia che mi ha procurato l’abbraccio tra Vialli e Mancini perché in quell’abbraccio ci sono tante cose. C’è la vita che continua e che va avanti.

I tifosi del Pescara non hanno dimenticato l’ultima promozione in serie A dei biancazzurri e rendono omaggio a Zeman nello stadio che segnò, ufficialmente, nella massima serie.

Si salva Zampano

11 Zampano                6,5
10 Benali                     6
20 Cerri                       
6

31 Bizzarri                  5,8
17 Caprari                  5,4
9 Kastanos                 5,2
8 Memushaj                5
3 Biraghi                     4,8
86 Stendardo             4,8
35 Coda                     4,7
5 Bruno                      4,4
7 Verre                       3,9

Zdeněk Zeman         5,5

Una sconfitta che brucia

La partita contro il Chievo Verona ha svelato, qualora ce ne fosse ancora bisogno, le difficoltà del campionato di serie A. Una partita sostanzialmente equilibrata che si è risolta nel finale grazie a due errori della squadra biancazzurra. I veneti, attenti e concentrati per tutta la durata della gara, hanno saputo aspettare e approfittare degli errori dei ragazzi di Massimo Oddo e hanno portato a casa l’intera posta in palio.
Una compagine, quella del presidente Luca Campedelli, difficile da affrontare per il Pescara. Una squadra che non farà sconti a nessuno e che, potrebbe anche aspirare a qualcosa di più della semplice salvezza.

Contro la Sampdoria gara ancor più difficile
E dunque, anche dopo la sconfitta interna dell’ultimo turno, la partita contro la Sampdoria diventa ancor più complicata. Sia per la posta in palio, sia per il momento delicato che attraversa la squadra doriana che nell’ultimo turno di campionato ha acciuffato il pareggio all’ultimo giro di lancetta.
In questi momenti serve lucidità per riuscire ad imboccare la strada giusta. Serve conquistare tre punti, per la classifica e per il morale. Serve dimostrare a se stessi di poter stare in serie A. Serve, soprattutto, avere fiducia nei propri mezzi, serenità e sorridere alla vita.

Ricorso respinto
Nel frattempo una bella notizia giunge dai piani alti di chi gestisce il calcio: la Corte Sportiva D’Appello ha respinto il ricorso del Sassuolo e dunque resta lo 0-3 così precedentemente sancito. Il Pescara resta dunque con i suoi 6 punti in classifica e può tirare un sospiro di sollievo. Il Sassuolo ha commesso una leggerezza e paga per quella leggerezza. Le regole vanno rispettate e dunque tutto è bene quel finisce bene.

Buon calcio a tutti.

Addio a Vujadin Boškov

Vujadin Boškov (Begeč, 16 maggio 1931 – Novi Sad, 27 aprile 2014)

Vujadin Boškov è morto all’età di 82 anni, ma nella memoria collettiva il suo volto e la sua voce resteranno per sempre quelli di un’eterno, giovane, uomo di calcio che ha saputo, con leggerezza, attraversare le nostre vite.
In queste ore successive alla sua scomparsa i media sottolineano soprattutto questo aspetto, la sua “leggerezza” unita alla capacità di saper sdrammatizzare tutto.
Famosissimi e popolari i suoi aforismi. I miei preferiti sono due:
«Rigore è quando arbitro fischia» e soprattutto «Gullit è come cervo che esce di foresta».
Modi dire che hanno contribuito a creare il personaggio Boskov.
E ancora «Se vinciamo siamo vincitori se perdiamo siamo perditori», «Io penso che per segnare bisogna tirare in porta. Poi loro sono loro, noi siamo noi», «Dopo pioggia viene sole», «No serve essere 15 in squadra se tutti in propria area», «Non ho bisogno di fare la dieta. Ogni volta che entro a Marassi perdo tre chili», «Io penso che tua testa buona solo per tenere cappello», «Un grande giocatore vede autostrade dove altri solo sentieri», «Palla a noi, giochiamo noi, palla a loro, giocano loro», e infine in questa breve carrellata, pillole appunto, «Meglio perdere una partita 6-0 che sei partite 1-0».
Ma Boskov è stato molto altro. Dopo una buona carriera da calciatore, è stato soprattutto un grande allenatore. Ha diretto squadre importanti come il Feyenoord, il Real Saragozza, il Real Madrid con il quale ha vinto una Liga e due Coppe di Spagna, lo Sporting Gijón e in Italia l’Ascoli di Costantino Rozzi con il quale vinse il campionato di serie B. La Roma, il Napoli e il Perugia. Ha allenato per due anni la nazionale della Jugoslavia. Soprattutto ha allenato la Sampdoria di Vialli e Mancini, con la quale ha vinto uno storico scudetto nel 1990/1991, due Coppe Italia, una Supercoppa Italiana e una Coppa delle Coppe. Arrivò a otto minuti dalla conquista della Coppa dei Campioni persa ai tempi supplementari contro gli spagnoli del Barcellona.
Quella Sampdoria, la Sampdoria di Vujadin Boskov, era una squadra che giocava bene, che esprimeva un’idea felice della vita. Era un altro calcio, un calcio senza tv a pagamento e che si giocava di domenica e tutti alla stessa ora. Le maglie andavano dal numero 1 alla numero 11 e il pallone era a spicchi bianchi e neri.
Ho nostalgia di quel calcio, credo di poter dire abbiamo nostalgia di quel calcio.
La terra ti sarà lieve Vujadin perché sei stato un uomo perbene e perché, cosa che non capita a tutti, ci hai fatto divertire, portando nelle nostre case, con la tua sagace ironia, tanta serenità.

Il Toro non può perdere, Eraldo Pecci

Scrive Gianni Mura nella prefazione: «questo, che sembra un libro rievocativo dello scudetto ’76, in realtà è una storia d’amore e a me piacciono le storie d’amore». Leggendo queste parole mi sono tornate in mente altre parole, lette tanti anni fa, che delimitano e restringono il concetto espresso da Mura. «Tutte le storie sono storie d’amore», scrive Robert McLiam Wilson in Eureka street. E ciò che racconta Eraldo Pecci ne il Il Toro non può perdere è davvero una bella storia, una bella storia d’amore. La narrazione di un mondo che non c’è più, «Erano altri tempi, torno a dirlo» scrive sempre Mura, travolto e cambiato da un’omologazione del pensiero che non ha eguali nell’evoluzione dei comportamenti umani. Un’umanità, rievocata anche nelle pagine scritte da Eraldo Pecci, che c’informa di un Paese migliore, sano e ricco di futuro.
La magica stagione ’75-76, il sottotiolo del libro, è la stagione della conquista dell’ultimo scudetto del Toro, uno scudetto che Pecci conquista al primo anno con la maglia granata. Una maglia passata direttamente dalla storia alla leggenda nel pomeriggio del 4 maggio 1949, il giorno del tragico incidente che causò la morte di un’intera squadra che aveva vinto cinque scudetti consecutivi.
Il giovane Eraldo si accorge fin dal primo momento che indossare la maglia granata è un privilegio e nello stesso tempo molto difficile.
«La differenza che c’è tra le città d’Italia dove ci sono due squadre e Torino è che a Torino ci sono “loro”, i gobbi. A Milano succede che in un certo periodo vada meglio il Milan e in un altro l’Inter. Succede così anche a Roma tra Lazio e Roma o a Genova tra Genoa e Sampdoria. A Torino no, a Torino ci sono “loro”, che sono padroni del giornale, padroni della tv, padroni della banca e, tramite la Fiat, padroni della città. Non c’è gara».
Eppure in quell’annata, calcisticamente fantastica e irripetibile, il Toro vinse lo scudetto conquistando 45 punti contro i 43 della Juventus. Era il Toro del “giaguaro”, dei “gemelli del gol”, del “poeta”. Questa la formazione titolare: Castellini, Santin, Salvadori, Patrizio Sala, Mozzini, Caporale, Claudio Sala, Pecci, Graziani, Zaccarelli, Pulici. Una squadra efficace e bella da vedere che rinverdì, anche se per pochi anni, i fasti del “Grande Torino”. Una squadra che giocava in velocità con un pressing alto in fase di non possesso palla che solo molti anni dopo si rivedrà, applicato sistematicamente, nel campionato italiano di calcio. Una squadra ruvida e nello stesso tempo con un alto tasso tecnico garantito da calciatori che hanno segnato la storia calcistica non solo del Toro. Paolo Pulici, Ciccio Graziani, Claudio Sala, Renato Zaccarelli, lo stesso Eraldo Pecci.
Ma un’impresa, perché quella del Toro del 1975 fu una vera impresa, non si realizza soltanto con gli undici calciatori che la domenica vince le partite sul terreno di gioco. Un’impresa come quella realizzata dal Torino nella stagione sportiva 1975/76 si costruisce se c’è un gruppo allargato di persone che lavora e vive in armonia. Questo gruppo Pecci non l’ha dimenticato, anzi è proprio a loro che dedica le pagine più belle del suo libro. Bruno Vigato (il magazziniere), la signora Franca (responsabile spogliatoio “Fila”), la famiglia Pasotti (il ristorante del circolo del Toro), Domenico Magrini (l’artigiano delle scarpe da calcio), il signor Porzio (addetto all’arbitro), Giacomo Franco detto “Nino” (accompagnatore di Radice), Bruno Colla e Giovanni Monti (massaggiatori), sono solo alcuni rappresentanti della fauna umana presente nel libro e che rese possibile, assieme ai calciatori ovviamente, quello splendido trionfo sportivo.
Pecci non dimentica niente e nessuno. C’è spazio infatti anche per la letteratura con Giovanni Arpino e la sua Me grand Turin, così come c’è, ovviamente, il giusto spazio per Luciano Orfeo Pianelli che Pecci definisce come «il miglior presidente che ho avuto in tanti di carriera […] Mi fermo ancora oggi al cimitero di Villefranche a salutare il mio Pres davanti alla tomba che divide con donna Cecilia. Sulla lapide ci sono spesso fiori freschi, a volte fiori di tifosi granata».
A questo si giustappone la narrazione degli eventi sportivi che determinarono quella storica vittoria. Le partite, i gol, gli aneddoti, i protagonisti. A completare il tutto 34 fotografie (più 2 della copertina), quasi tutte in bianco e nero, che hanno la capacità di saper riavvolgere il nastro dei ricordi e trasportati, per il tempo della lettura, ad esultare con Pulici e Graziani, con Castellini e Claudio Sala e, ovviamente, con quel ragazzo dall’accento bolognese e la maglia numero 8 sulle spalle: Eraldo Pecci.

Il Toro non può perdere, Eraldo Pecci (2013, Rizzoli, 288 pagine. 18 euro) 

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