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Euro2020, l’attesa per Belgio-Italia

I numeri nel calcio sono importanti, ma non sono tutto.

I numeri dicono che delle quattro partite dei quarti di finale di Euro2020, tre hanno una favorita e una soltanto è in bilico.

Il ranking UEFA per nazioni vede infatti le otto squadre rimaste in lizza per la vittoria finale, rispettivamente in queste posizioni: Inghilterra (prima), Spagna (seconda), Italia (terza), Belgio (nona), Ucraina (dodicesima), Danimarca (quattordicesima), Repubblica Ceca (diciassettesima) e Svizzera (diciannovesima).

Ovviamente i numeri non sono tutto e il prossimo avversario dell’Italia, il Belgio, è molto temibile.

Una squadra ben organizzata con tanti calciatori di talento in rosa. De Bruyne, Hazard, Mertens, Courtois e Romelu Lukaku, sono atleti di primissima fascia. Campioni in grado di risolvere la partita in qualsiasi momento sia con giocate personali sia con trame di gioco collettive.

Sarà una partita difficile per i ragazzi di Roberto Mancini.

Conterà molto la condizione fisica, se gli azzurri saranno brillanti come nelle prime tre partite disputate fino ad oggi la gara potrebbe essere più semplice del previsto.

La nazionale italiana di calcio fonda la sua ragione d’essere sul gioco. Un ordito imparato a memoria da tutti i protagonisti scelti da Mancini, questa la certezza degli azzurri. La squadra è sempre alla ricerca della palla e predilige giocare nella metà campo avversaria. Utilizza molto l’ampiezza del campo di gioco, ma non disdegna giocate in verticale utilizzando l’attitudine di Immobile ad attaccare la profondità. Un gioco bello da vedere, ma molto dispendioso da un punto di vista fisico che richiede perciò una condizione ottimale.

L’Italia vista nelle prime tre partite è stata una squadra molto reattiva, veloce e resistente. Ci sarà bisogno delle stesse, identiche, qualità.

Se la difesa è affidabile e difficilmente tradisce grazie anche al grande lavoro di Jorginho e dei suoi compagni di reparto, i tre attaccanti dovranno superarsi ed essere determinati per continuare un percorso fino ad oggi esemplare.

Ci sarà bisogno del miglior Lorenzo Insigne e dei gol di Ciro Immobile. Di rivedere il Berardi dei tempi migliori, il calciatore in grado di saltare sistematicamente l’uomo e di cercare i compagni di reparto. Mai come in questa partita i destini degli azzurri sono nei piedi degli attaccanti.

E se loro tre non dovessero bastare ci sarebbe sempre Federico Chiesa, l’uomo in più che l’Italia ha e le altre squadre non hanno. Fino ad oggi è stato esemplare, determinante. Euro2020 può consacrarlo come uno dei migliori calciatori d’Europa, deve trovare una continuità maggiore nelle giocate e, soprattutto, giocare di più per la squadra e con la squadra. Questo è il salto di qualità che gli si chiede.

Se sarà capace di fare questo l’Italia potrà contare su un campione vero per molti anni ancora.

Che gusto c’è a fare l’arbitro

Diciamo la verità, da bambini nessuno vuole fare l’arbitro, così come nessuno vuole fare il portiere. Poi s’inizia a giocare e ci si rende conto dei valori in campo. A quel punto chi è meno capace è disposto a giocare anche anche in porta. L’arbitro però no, proprio no. Nessuno vuole farlo. Per questa ragione il titolo del libro di Nicola Rizzoli, Che gusto c’è a fare l’arbitro, è un titolo appropriato e che cattura l’attenzione.
«Quasi tutti quelli che parlano di calcio hanno giocato a calcio almeno una volta nella vita. Quasi tutti quelli che parlano di arbitri non hanno mai arbitrato una partita nella loro vita».
E già dall’esergo si capisce che Rizzoli ha ragione e che il libro promette bene. Siamo un Paese di allenatori, ma non di arbitri.
«Un’ultima occhiata alla borsa, poi chiudo la zip ed esco dalla stanza in punta di piedi. Anche la casa è avvolta nel silenzio e io voglio uscire senza svegliare mamma e papà. Loro non sanno niente, non sanno che è la mattina del mio debutto. Meglio risparmiare loro la tensione, e poi così sono più tranquillo anch’io».
L’arbitro bolognese svela, con grande acume, l’aspetto umano a cui in pochi prestano attenzione quando si parla di arbitri. Ci ricorda che gli arbitri sono dei ragazzi, ragazzi comuni con i sogni dei ragazzi comuni.
«una lezione che imparo sul campo, in un torneo undici contro undici organizzato a fine campionato tra le sezioni arbitrali dell’Emilia Romagna […] Ad arbitrare la finale del nostro torneo regionale viene quindi mandato un giovanissimo Pierluigi Collina […] Il giorno della partita sono emozionatissimo. Dopo qualche minuto in cui la fa da padrone l’agitazione per essere lì a giocarsi una finale (la prima della mia vita, per quanto insignificante), cominciamo a fare sul serio, con un buon ritmo. Siamo a metà del primo tempo quando dribblo un difensore, entro in area e, al minimo contatto, mi lascio cadere, sperando in quell’occhio di riguardo bolognese… Ma quanto mi sbagliavo! Non solo Collina non fischia nulla, ma mi guarda dritto negli occhi e mi urla: “Rizzoli, non fare Micca il furbo con me! Becchi male…».
Che il destino di Rizzoli fosse segnato lo si capisce fin dall’inizio della sua carriera e l’incontro con Pierluigi Collina, colui che sarebbe diventato il miglior arbitro del mondo, ne è una testimonianza in questo senso.
«Piango poi rido, piangiamo e ridiamo. Sembra una macchina con due pazzi dentro. Urlo, e poi ancora le lacrime agli occhi. Penso a come dirlo ai miei. A mia madre che sicuramente mi dirà: “Sì bravo, ma adesso non mollerai mica l’architettura!” A mio padre e a Lele che non ci avrebbero mai scommesso. In effetti sembra incredibile, anche se ci ho sempre creduto […] Rientro a casa a notte fonda, sul tavolo mia madre mi ha lasciato una piccola busta. C’è scritto: “Per Nicola Rizzoli”. La apro. Una monetina e un biglietto: “Ogni promessa è un debito. Non sono mai stato così contento di pagarne uno! Complimenti. Simone Ponzali».
Il libro è un susseguirsi di emozioni. Meglio, la trasposizione su carta e a posteriori delle emozioni forti che hanno accompagnato la brillante carriera di Nicola Rizzoli. Come il momento in cui apprende di essere diventato un arbitro di serie A e quello della designazione per la prima partita nel campionato italiano di calcio più importante.
«Aprono un’altra pallina verde e Pairetto mostra il fogliettino contenuto all’interno e dice: Venezia-Perugia, Serie A. Sposto immediatamente gli occhi su Bergamo che dice: “Vediamo chi va a Venezia…”. Mentre gira il foglietto mi guarda dritto negli occhi con sorriso: “Rizzoli! Sei pronto per la Serie A?. Oddio».
Un’ascesa che non conosce limiti e che lo porta dalla serie A italiana ai vertici del calcio europeo e mondiale.
«1° ottobre 2008, a quattro giorni dal mio compleanno, arbitrerò la mia prima partita di Champions League […] Appena entrato nello spogliatoio vedo i palloni appoggiati in una sacca sotto al tavolo. Sono tanti, una dozzina, li lasciano nel mio spogliatoio fino a qualche minuto prima della partita affinché io possa verificare se sono tutti a posto. Sopra, in bella mostra, c’è la scritta “UEFA Champions League”. Istintivamente ne afferro uno con entrambe le mani e me lo porto davanti alla faccia, poi chiudo gli occhi e inspiro profondamente. Lo so che sembra un gesto da matto, ma è un’abitudine che ho fin da bambino».
Un uomo e un arbitro di successo che coglie i frutti di un duro lavoro fatto di tante partite sui campi minori e tante ore passate a ripensare ai propri errori. Nel racconto della sua carriera Rizzoli giustappone agli accadimenti storici gli accadimenti emotivi. Svela le sue emozioni e le sue aspirazioni. I suoi, piccoli, segreti. Come per esempio l’abitudine di sentire il profumo del pallone prima dell’inizio di una partita. Lo fanno tanti bambini. Lo fanno tutti i bambini che sono innamorati del gioco del calcio. Lo fa Nicola Rizzoli, innamorato del calcio e del suo ruolo.
«Dopo cena, saluto tutti e vado in camera. Preparo la borsa con grande cura, ripetendo mentalmente l’elenco delle cose da portare, poi mi stendo sul letto e lascio rilassare gli occhi e la mente. Quindi, poco prima di dormire, proprio come ho fatto un anno fa per la finale di Champions League con quello della UEFA, mi sono seduto sul letto e, con ago e filo, cucio lo stemma Fifa sulla mia divisa rossa. Amo farlo personalmente, con le mie mani, come mi ha insegnato mia nonna tanti anni fa. È l’ultimo rito, il più importante, quello che più di tutti riesce a calmarmi».
Un amore e una passione che ha saputo trasformare in lavoro, ottenendo il massimo dei risultati a cui un arbitro può aspirare: arbitrare la finale del campionato mondiale di calcio. A lui è successo ed è successo nella patria per antonomasia del calcio, il Brasile. Il punto di arrivo di una lunga carriera che lo ha visto vincere sfide importanti. Un uomo di successo che dopo ogni risultato conseguito ha avuto la capacità di resettare e cominciare di nuovo con lo stesso entusiasmo della prima volta, cercando nuovi stimoli per nuovi successi. Soprattutto un arbitro che nutre una passione vera per il gioco del calcio e che, infondo al suo cuore, ha saputo custodire con cura il bambino che è in ognuno di noi.
«Mi lascio alle spalle i festeggiamenti di chi sta salendo le scale per andare a sollevare la Coppa del Mondo e comincio a camminare. Riesco a sentirmi finalmente solo con le mie emozioni. Mi trovo al centro, in mezzo ad almeno settantamila persone che urlano o piangono. Ora posso ammirare la cornice del Maracanà. Che spettacolo […] Ecco che gusto c’è a fare l’arbitro».

Che gusto c’è a fare l’arbitro, Nicola Rizzoli. A cura di Francesco Teniti (Rizzoli, 2015. 340 pagine. 17,50 euro)

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